Eleonora Sparvoli è docente di Letteratura francese e di cultura francese presso l’Università degli studi di Milano ed è una delle maggiori esperte italiane di Marcel Proust.
Ho avuto la fortuna di essere stata sua allieva, alcuni anni fa, e quell’immersione mentale e totale nelle pagine di Alla ricerca del tempo perduto non l’ho più dimenticata. Lo spazio ristretto dell’aula all’improvviso si dilatava e spalancava il mondo intero: non erano semplicemente lezioni su un autore o su un’opera, erano lezioni sulla vita. Era stupefacente il fatto che, nel testo di un unico libro, sembrava essere compreso tutto, anzi - come ricordava la professoressa - tutto era compreso persino nello spazio di una sola frase: il mondo intero pareva racchiuso, come un enigma, come un mistero, in una frase proustiana. Ed è proprio lì, in quel punto, che il confine tra letteratura e vita si fa labile e si compie il prodigio.
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Al grande autore della Recherche Eleonora Sparvoli ha dedicato numerosi saggi, tra cui ricordiamo Contro il corpo (Franco Angeli, Milano, 1997), L’avventura mancata (Cisalpino, Milano, 2003), Proust costruttore melanconico (Carocci, 2016).
La sua ultima pubblicazione Marcel Proust. La vita, la scrittura (Carocci, 2023) è il compendio di un lavoro di studio e di ricerca trentennale. Un’indagine nell’insondabile mistero chiamato Proust e nella sua metamorfica creazione, il libro più lungo della letteratura mondiale, ovvero Alla ricerca del tempo perduto.
La professoressa Sparvoli ha definito questa sua ultima opera dedicata all’analisi proustiana come un “libro scritto di slancio”, nonostante le abbia richiesto grande lavoro; in effetti è un saggio appassionante che si legge come un romanzo e conserva intatto il fascino e la stessa indescrivibile magia incantatoria delle sue lezioni universitarie.
Ne abbiamo parlato in questa intervista.
- Nel libro definisce la Recherche come un’opera metamorfica, in continuo divenire. È un’opera che inoltre si adatta, in un certo modo, a chi la legge. Possiamo dire che ognuno, in fondo, abbia la propria Recherche?
Il fatto che La Recherche sia un’opera metamorfica è legato alla storia della sua stesura. È un’opera che traduce un movimento costante: prima progettata per avere questa bipartizione, temps perdu e temps retrouvé, poi dilatata, poi si aggiunge il motivo di Gomorra attraverso la figura di Albertine ed ecco che muta di nuovo forma.
Diciamo che è un’opera che probabilmente l’autore avrebbe continuato a rimaneggiare all’infinito. Un’opera instabile, magmatica, come se fosse un’opera viva.
Mentre il fatto che ognuno vi cerca quel che vuole è legato all’idea che sia “un’opera mondo” nella quale ognuno poi trova la propria pista personale, il suo percorso. Un lettore può privilegiare degli aspetti piuttosto che altri.
- Lei conclude il libro con la parola “vocazione”. Scrive: “può apparire una vocazione”. È questa la sua chiave di lettura privilegiata della Recherche?
Questo tema della vocazione è quello che io ho sempre cercato, su cui tante volte ho scritto e, in fondo, si esprime proprio nel rapporto tra la vita e l’opera. Non è tanto nel cercare ciò che c’è di autobiografico nell’opera di Proust, ma in che modo una vita si converta alla letteratura. Proust è un autore esemplare da questo punto di vista, per il quale la vocazione è centrale, lui stesso la menziona nel suo romanzo. Alla fine mi sono resa conto che il grande tema dell’arte, ovvero cosa significa l’arte nella vita, l’arte come riscatto, anche dall’amore, sono sempre stati i temi a cui sono stata più legata. Il voler capire che tipo di funzione abbia l’arte nella vita, senza dubbio, è una delle parti più interessanti della mia ricerca.
- Nel saggio descrive la Recherche come un’opera generata da un lutto: la morte della madre. In realtà poi si scopre che nella vita di Proust c’è stata un’altra grave perdita, quella di Alfred Agostinelli. È corretto dire che senza questo duplice lutto non sarebbe nata l’opera?
La genesi della Recherche è nella scrittura di questo saggio su Saint-Beuve, come conversazione con la madre che, nella realtà della vita di Proust, era morta. Quindi in qualche modo troviamo l’opera d’arte che va a innestarsi su un abisso, su questa perdita fondamentale, come il tentativo di riallacciare il dialogo con un assente. Per altri versi, la Recherche poteva essere scritta solo dopo la morte di Madame Proust proprio per i caratteri peculiari che quest’opera ha, che possiamo definire scandalosi, abissali, infernali. Forse non è l’opera che la madre avrebbe voluto che il figlio scrivesse. Certamente è un’opera che è profondamente marcata dal senso della perdita. Dalla perdita della possibilità della felicità, dalla perdita che la malattia porta con sé separando l’essere dal godimento della realtà. L’opera d’arte appare come l’unica possibilità della felicità. Mentre il secondo lutto, la morte di Agostinelli, è quello che provoca il dissestamento di quello che era il progetto iniziale e fa diventare l’opera un’altra cosa, ne cambia le simmetrie, le corrispondenze.
- Allude anche alla malattia di Proust che è uno degli aspetti più interessanti e, forse, incompresi della sua vita. Scrive di questa strana forma d’asma che alcuni addirittura definiscono “isterica”. Lei che spiegazione si è data?
L’ipotesi più interessante è quella di Jean-François Viaud che dice che quest’asma allergica che aveva Proust possa essere stata un argine contro la depressione.
In qualche modo è come se questa perdita della simbiosi materna si traducesse in una somatizzazione che diventa così il compromesso con il quale può vivere, anziché sprofondare nella depressione senza parole, senza sintomi somatici.
È come se il corpo facesse da sintomo, da barriera, con l’asma allergica. Dal punto di vista psicologico è interessante: perché Proust è allergico all’alterità, cerca sempre di smussare ciò che non è un tutt’uno con lui, cerca rapporti simbiotici, cerca l’accoglienza in un alveo materno. La sua è allergia all’Altro ed è questo, in fondo, che provoca sofferenza. Risponde in fondo al suo desiderio di essere accolto in un cerchio amorevole, in un luogo che non escluda la sua diversità, la sua differenza.
- A un certo punto lei descrive molto bene lo spirito dell’opera, la complessità che ce la fa amare: “il bene è avviluppato al male, la tenerezza alla ferocia”. È questa l’atmosfera morale della Recherche?
Un altro dei temi che mi sta a cuore. Una delle cose che reputo più attraenti della Recherche è questa complessità non manichea, questa mancanza di faziosità da parte dell’autore. È una mancanza di giudizio morale. L’unico giudizio morale per Proust è quello dell’arte: il problema è fare una buona o cattiva opera d’arte, ma non il suo contenuto. L’evoluzione dal Proust giovane al Proust maturo è proprio la comprensione della complessità, di questa inevitabilità del Male: il male è avviluppato al bene, l’opera d’arte non sta nell’Iperuranio, ma è profondamente insidiata dalla sofferenza. Un uomo può comporre una musica divina, come il musicista Vinteuil, e avere un’esistenza misera.
- Nel saggio scrive una frase molto bella, che “è davvero il cuore il culmine dell’opera proustiana”. Ma osserva anche che l’amore non è mai felice nella Recherche, c’è sempre una mancata coincidenza. Lei come interpreta il tema dell’Amore narrato da Proust?
È l’impossibile reciprocità. L’amore nasce e si origina da un’impossibilità, quindi nasce come il bisogno di colmare un’impossibilità, come tensione verso il raggiungimento dell’irraggiungibile, in qualche modo.
- Nel corso universitario che aveva tenuto alcuni anni fa si concentrava sugli ultimi romanzi della Recherche, in particolare su Albertine scomparsa. In questo libro ritroviamo il tema dell’amore e anche quello del lutto. Si tratta di una chiave di lettura importante dell’intera opera?
Sono i grandi romanzi del lutto, trovo che in quelle pagine Proust abbia raggiunto davvero delle vette. Lo stesso Proust diceva, a proposito di Albertine scomparsa, che era forse quanto di meglio aveva scritto. In quel volume c’è tutto: la sofferenza, il dolore, la ricostruzione della memoria, la ricomposizione delle immagini della vita comune con Albertine. A livello anche di autoanalisi lo trovo straordinario. Ne La prigioniera, un altro grande romanzo all’interno del ciclo, c’è il tema amoroso legato al tema dell’arte, ciò che porta l’autore dentro la consapevolezza della propria “vocazione”. La resurrezione, infine, arriva dall’arte.
- Ci sono molte interpretazioni sul personaggio di Albertine, che appare piuttosto controverso. Secondo lei chi si nasconde davvero dietro Albertine?
È sicuramente Alfred Agostinelli, prima autista e poi segretario di Proust, suo grande amore, la cui storia viene proiettata nel romanzo ancora incandescente nel suo farsi.
Una delle particolarità del roman d’Albertine è che è scritto a ridosso degli eventi che concernono la relazione tra Proust e Agostinelli. Ma sicuramente non c’è solo quello: un romanziere trasfonde il materiale della sua vita nell’opera d’arte. Quando il narratore descrive il suo vagare nella casa ormai disertata da Albertine si esprime con delle parole e degli accenti che avevamo già trovato nelle lettere scritte da Proust dopo la morte della madre. I due lutti si saldano insieme nello spessore della perdita di Albertine.
- La figura della madre è sicuramente complessa e, al contempo, centrale nella Recherche, a partire dal mancato bacio della buonanotte dell’incipit. Lei scrive che il lutto per la morte della madre è gravato dal fardello del senso di colpa. È questo senso di colpa che spinge alla scrittura?
Tutto è estremamente complesso. C’è il senso di colpa di non essere stato il figlio che i suoi genitori desideravano, di non aver corrisposto alle aspettative familiari. Poi c’è il senso di colpa derivato dalla propria omosessualità, che contravveniva alle attese dei genitori che desideravano che lui si sposasse e magari mettesse su famiglia. Questo è considerato come un amore colpevole, un amore quasi profanatorio nei confronti della purezza della figura materna. Poi c’è il senso di colpa che tra l’altro descrive benissimo nell’articolo Sentimenti filiali di un parricida, quando dice: in fondo noi uccidiamo le persone che più ci amano con le preoccupazioni.
In qualche modo Proust ha usato la propria malattia per attirare l’attenzione della madre, affliggendola con il proprio malessere, con la propria tristezza.
Il senso di colpa è un tema centrale. È questo il bello della Recherche, ti trascina nelle parti più scomode della tua vita, quelle che non vorresti guardare.
- A proposito dei legami tra vita e opera che lei cita nel saggio. Possiamo leggere nella morte di Bergotte, episodio straordinario della Recherche, una sorta di prefigurazione della morte di Proust? È come se Proust stesse anticipando la propria stessa morte?
In realtà c’è stata tutta una vulgata sulla morte di Bergotte, favorita anche da Robert Proust, il fratello di Proust, sul fatto che quella scena ritraesse un episodio della vita reale di suo fratello. Però era un interpretare la vita alla luce dell’opera. Tante testimonianze ci dicono che Proust era effettivamente andato a vedere l’esposizione di Vermeer, ma non si era affatto sentito male davanti alla Veduta di Delft, anzi, stava benissimo. Lui si proietta in quell’episodio, immagina di poterlo vivere, ma non lo vive realmente. Di sicuro, per la simbiosi che c’era in quella fase della scrittura proustiana, nel 1921, lui quando scrive quell’episodio immagina davvero di viverlo: pensa a sé stesso, si proietta. Tanto che la notte prima di morire Proust detta alla domestica Celeste alcune frasi che sarebbero poi integrate nella morte di Bergotte. Lui si stava identificando nel suo personaggio.
È come se in Bergotte avesse sperimentato l’anticipazione della propria morte.
- Una delle grandi domande che attraversa il suo saggio è il rapporto tra vita e scrittura. È difficile scindere l’opera, la Recherche, dal suo autore, Proust. Eppure la Recherche non è esattamente la vita di Proust. Lei a quale conclusione è giunta?
Già il Contre Sainte-Beuve, la prima opera proustiana, contiene un avvertimento, un’istruzione preliminare, tra le righe già ci dice: sto progettando di scrivere un’opera che non dovete giudicare alla luce della mia vita.
La Recherche non era un libro di memorie e non doveva essere letto in quel modo, questo pensiero lo tormentava. Per Proust era fondamentale che l’opera avesse delle logiche che fossero “altre” rispetto a quelle della vita: l’esistenza è il luogo della delusione e della menzogna, dove vige una sorta di ferocia reciproca; mentre l’opera è il luogo in cui non si può mentire. L’opera è il luogo in cui si può finalmente comunicare sé stessi.
Del resto c’è da dire che è del tutto evidente il legame tra l’opera e la vita di Proust, vi ritornano infatti caratteri e personaggi reali; ma Proust fa questa distinzione tra la vita di superficie - quella che gli altri vedono e sentono nelle conversazioni - e la vita profonda, dove invece contano le corrispondenze sotterranee.
Una cosa sulla quale insisto molto nei miei studi e nelle mie ricerche, anche in quest’ultimo testo, è che a un certo punto c’è stata un’inversione. La vita va a coincidere con l’opera. Il narratore diventa l’opera, vive dentro l’opera, l’osmosi tra le due diventa totale, non c’è più distinzione.
- Alla ricerca del tempo perduto è un’opera sempre moderna, la ritroviamo tuttora in dialogo con il nostro tempo. Qual è oggi l’attualità della Recherche secondo lei?
È moderna in maniera sconvolgente, attualissima. Anche il tema della mondanità, sebbene ora non ci siano più le classi aristocratiche, è qualcosa che ritorna: c’è quest’idea del vivere costantemente sulla scena, dell’apparire, questo bisogno di essere riconosciuti per esistere, in fondo, è quanto succede oggi nel mondo dei social. La stessa dinamica del gruppo, l’inclusione e l’esclusione del singolo sono dinamiche molto presenti anche nella nostra vita di tutti i giorni.
Poi, secondo me, ci lancia anche un ammonimento: noi viviamo in tempi di atroce semplificazione e banalizzazione e Proust ci dà delle lezioni di complessità, ci dice che la vita è complessa e non si può semplificare. Fa notare che, qualsiasi cosa accada, noi ci rifugiamo nella polarizzazione - o stai con me o contro di me - mentre lui osserva che non possiamo dividere con l’accetta, perché semplificando non capiremmo nulla della realtà.
Proust può dire ancora molto da quel punto di vista, anche sulla vita personale, ci parla di infingimenti, di ipocrisia sociale, dei falsi idoli dell’amore. Non smette mai di dire.
- Secondo lei cosa avvicina i lettori di oggi a Proust? È ancora in atto una riscoperta?
Quello che caratterizza gli studi proustiani negli ultimi anni è l’interesse del grande pubblico per la genesi dell’opera. Vengono pubblicati gli avantesti, i testi inediti, persino i questionari. Di Proust ora interessa molto il modo in cui lavorava. Nel 2022, in occasione del centenario, la Bibliothèque nationale de France ha organizzato una grande mostra dal titolo “La Fabrique de l’œuvre” che mostrava proprio i manoscritti, facendo vedere come un episodio da un manoscritto all’altro si sia modificato. Ed è stata molto visitata. Questo dimostra che anche il lettore comune ha il desiderio di entrare nell’officina dello scrittore della Recherche, forse perché si identifica con il desiderio di scrivere del suo protagonista. E qui ritorna il tema della vocazione.
- Concludo con una domanda più personale, che in qualche modo chiude il cerchio del legame tra vita e opera. Lei come si è avvicinata a Marcel Proust? Si ricorda il suo primo incontro con la Recherche?
Io mi sono avvicinata a Proust grazie a un professore, come sovente capita. Avevo cominciato a leggere autonomamente Un amore di Swann, ma non ero riuscita a entrare nell’opera, mi sembrava noiosa. Poi, mentre ero all’università, ho seguito una conferenza dedicata proprio al Contre Sainte-Beuve, quindi sul tema del rapporto tra l’io che vive e l’io che scrive. Una conferenza talmente bella che ho capito che dovevo seguire le lezioni di quel professore dedicate a Proust. Poi è diventato l’argomento della mia tesi di laurea e il punto di arrivo di tutti i miei studi.
- Immagino che le sue ricerche su Proust non siano ancora finite. Non si finisce mai di studiare la Recherche. Adesso sta scrivendo altri libri sull’argomento?
Sì, mi sto occupando sempre di cose proustiane. Uno è un volume, che sto scrivendo insieme a una mia ex allieva, sull’evoluzione della critica proustiana: come si è evoluta l’immagine e la ricezione di Proust nella critica. Poi sto lavorando a un Meridiano, in cui è contenuto tutto quello che Proust ha scritto prima della Recherche, dimostrando che di fatto si è trattato di un lungo cammino verso la Recherche. Un grande lavoro.
Non mi aspetto di scoprire cose nuove su Proust, ma di effettuare una sistematizzazione. In questo ultimo saggio appena pubblicato, Marcel Proust. La vita, la scrittura, si trova quello che è il mio Proust. In queste pagine c’è Proust così come io l’ho appreso, studiato, assorbito in trent’anni di studi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Proust ci dà lezioni di complessità”. Intervista a Eleonora Sparvoli
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Approfondimenti su libri... e non solo Ti presento i miei... libri News Libri Carocci Eleonora Sparvoli
Una intervista straordinaria su chi fa le domande e chi risponde. Marcel Proust è il mio scrittore preferito. Grazie mille.
Vincenzo
Intervista di grande livello professionale e culturale che invoglia ad approfondire sempre di più a conoscere questo stupendo personaggio che è Marcel Proust. Coplimenti