Quanto dura un attimo
- Autore: Paolo Rossi con Federica Cappelletti
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Mondadori
- Anno di pubblicazione: 2019
Quanto dura una gioia? La mattina dopo la vittoria dei Mondiali di calcio 1982, a tante ore dal fischio finale del 3-1 alla Germania, quasi sessanta milioni di italiani erano ancora ubriachi di felicità. Quella sensazione di successo, di affermazione nazionale, aveva un nome, un cognome, un soprannome (Paolo Rossi, Pablito) e il volto sorridente di un allora ventiseienne esile per essere un atleta e tuttavia meno basso (1.78, quasi 1.80) di quanto non sembrasse sugli schermi. Oggi ha 64 anni e ha raccontato la sua vita sportiva, facendoci rivivere quelle emozioni, nell’autobiografia Quanto dura un attimo (pubblicata da Mondadori a fine 2019, 300 pagine), scritta a quattro mani con la moglie Federica Cappelletti, giornalista, scrittrice e sceneggiatrice.
“Mi chiamo Paolo Rossi, sono un calciatore, campione del mondo 1982.”
Si presenta così, con estrema semplicità, dopo avere anticipato, insieme alla nuova compagna della sua vita, sedici anni più giovane, che la sua è una favola a lieto fine. E questo fa pensare che momenti difficili e contrarietà saranno pure stati affrontati, come in ogni fiaba.
Ha un cognome molto diffuso in Italia, ma non sarà mai un signor Rossi qualsiasi: lo sanno bene i figli Maria Vittoria, Sofia Elena e Alessandro, che da bambini lo hanno diviso per strada con tutti i passanti che lo fermavano, gli facevano i complimenti, lo ringraziavano per quanto aveva regalato loro: una gioia indimenticabile.
Oggi è un dirigente del Vicenza Calcio, ma poco meno di quarant’anni fa, nell’estate spagnola, è stato il capocannoniere e il miglior giocatore del Mundial, capace di schiantare con tre reti la più forte squadra di tutti i tempi, il Brasile di Falcao, Zico, Socrates, un team stellare a memoria di tanti, più grande delle squadre campioni verdeoro di Pelè. Perché oltre alla tecnica, i nipotini 1982 di O Rei erano anche preparati atleticamente, vantavano un senso tattico innato e schieravano un fuoriclasse in ogni ruolo. Avevano solo due (gravi) punti deboli, che insieme a uno smisurato complesso di superiorità li hanno traditi: schieravano tra i pali un portiere che non la prendeva mai e al centro dell’attacco un centravanti che non la metteva dentro. Per il resto, solo fuoriclasse. Oltre alle tre stelle, l’interno a tutto campo Toninho Serezo, il terzino tuttofare Junior e tra gli altri un’ala mancina dal sinistro terrificante, Eder.
Anche un pareggio li avrebbe promossi in semifinale e per due volte l’avevano raggiunto, annullando ogni gol del nostro Pablito, ma dimostrarono di non accontentarsi, continuando a cercare la nostra porta e beccando il terzo, al 74°, sugli sviluppi di un calcio d’angolo. Da quel momento, attaccarono fino all’ultimo secondo, con una pericolosità devastante, ma gli Azzurri non persero la testa, al contrario dei tifosi brasiliani: pianti, disperazione, suicidi per la tragedia del Sarrià (l’incontro si disputò a Barcellona).
È stata una partita da storia del calcio per italiani e avversari, non un momento di pausa, il cuore di tutti oltre l’ostacolo. Ho rivisto più volte la registrazione di quella sfida appassionante e l’ho sempre seguita con la fortissima partecipazione emotiva del primo momento e con l’assurda paura che quel Brasile arrembante potesse pareggiare, dopo la terza rete di Paolo.
E pensare che quella spedizione in Spagna era nata tra le polemiche spietate. I giornalisti, a parte poche eccezioni (non più di tre, quattro cronisti tolleranti), non perdonavano al selezionatore Enzo Bearzot di avere lasciato a casa giocatori apprezzati dalla critica, ma estranei al blocco Juventus sul quale aveva puntato. Eccitata dall’opinione pubblica avversa (come sempre quando sono in ballo i pur decisivi talenti bianconeri), la stampa alimentava una campagna suicida: “Meglio tornare a casa”, esasperata dalle deludenti prestazioni azzurre nelle tre partite del girone di qualificazione, superato senza una vittoria, con tre scialbi pareggi.
Poi arrivarono le riscosse inaspettate con Argentina e Brasile, una semifinale senza patemi con la Polonia, l’apoteosi dell’11 luglio a Madrid e tutti, per primi i critici più feroci, salirono sul carro dei vincitori, sul quale l’unico ad avere diritto a montare era il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che interpretava sinceramente l’eccitazione dei connazionali per una vittoria insperata, ancora più esaltante.
Dalla polvere agli altari, dal disastro al successo, nel mondiale ’82 come nell’intera carriera calcistica, una costante per Pablito, uscito solo qualche mese prima (aveva fatto in tempo a mettere la firma sullo scudetto 1981/82 della Juventus) da due lunghi anni di squalifica sportiva, per una complicità nel Calcioscommesse 1980, di cui si dichiara innocente. Basato sulle dichiarazioni di due giocatori d’azzardo pentiti, lo scandalo spedì in Serie B società blasonate come il Milan e la Lazio e coinvolse calciatori come Pablito, allora al Perugia, Bruno Giordano e Manfredonia della Lazio.
Ventitreenne talento in ascesa a livello mondiale, Paolo non aveva niente a che fare con la combine e lo spiega nell’autobiografia, con la serenità di chi ha sempre professato la sua innocenza. In quei giorni era certo che la verità sarebbe emersa nell’inchiesta, ma non fu così e dovette scontare per intero la condanna all’inattività. Rientrò in campo a tre giornate dalla fine del campionato, messo sotto contratto della Juventus di Boniperti, nella quale aveva avviato la carriera professionistica nel 1973.
Al Mondiale non era in forma, ma Bearzot credeva in lui (un secondo padre, come Gibì Fabbri, trainer del Vicenza). Paolo affrontò le prime partite al di sotto dei suoi mezzi, poi sono arrivate le emozioni e le gioie, raccontate in coppia con Federica.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Quanto dura un attimo
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