Racconti di Sarajevo
- Autore: Ivo Andrić
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Newton Compton
Ivo Andrić (1892 - 1975) è stato il cantore del mondo balcanico, coacervo di razze e religioni, che diviene prototipo dell’intera umanità, con le sue croci e la ricerca della pace. Riceve il premio Nobel per la Letteratura nel 1961 per il romanzo Il ponte sulla Drina, rappresentazione epica di ampio respiro, in cui il fiume inamovibile è testimone del fluire delle generazioni attraverso i secoli.
L’opera omnia dello scrittore è raccolta in ben 17 volumi. Il giovane Andrić è stato un patriota irredentista contro l’impero asburgico; in seguito a ciò subì il carcere per tre anni. Notevole la sua attività diplomatica in vari stati.
Nei Racconti di Sarajevo (Tascabili economici Newton, 1993, pp. 92, traduzione e cura di Dunja Badnjević Orazi), la città sempre martoriata diventa simbolo del calderone universale dove tutti sperimentiamo la vita. È crocevia di quattro religioni e mondi: cattolicesimo, cristianesimo ortodosso, ebraismo e Islam. L’accordo tra loro è il compito richiesto dalla Storia.
I sette racconti, scritti in tempi diversi, dal 1946 al 1975, si aprono con un’alta invocazione, datata 1926:
"Dio dei cieli che vegli su di noi e che tutto conosci, […] dona la pace ai nostri cuori e l’armonia alle nostre città. Basta con il sangue e con i fuochi di guerra. Del pane della pace abbiamo bisogno!”
Sembra una profezia, alla luce di quanto è avvenuto dopo, negli anni Novanta del secolo scorso in Bosnia Erzegovina.
Nelle cento pagine scarse predomina una invincibile malinconia balcanica, scaturita da secoli di dominazione straniera, prima turca poi austroungarica, spesso divenuta caratteristica endemica, rassegnazione e fatalismo.
Due amici con lo stesso nome, Ibrahim, ma differenti per condizione sociale, uno aristocratico, l’altro piccolo borghese (ecco la fratellanza), chiudono il settimo racconto Parole verso sera con una cupa conversazione, sulla riva della Miljacka:
“Mentre parlo mi rendo conto sempre di più di non sapere di cosa sto parlando e finisco per ingarbugliarmi maggiormente, temendo, nella mia ignoranza, di dire qualcosa di ingiusto e falso, di vendere così la mia anima per sempre. Per questo ammutolisco e mi interrompo. Lascia perdere!”
Chi parla infine abbassa il tono di voce, divenuto quasi impercettibile. Le cose dette sono troppo grandi per non averne quasi paura. Tale l’anima straripante di troppe cose del bosniaco, che deve essere sempre salvata. Come quella di ciascuno di noi. Ma è soltanto un aspetto della psiche composita e sfaccettata di chi è sia turco che "crucco" (tedesco) e altro.
Un fondamentale tratto di questi popoli, rivela Max Levenfeld, protagonista di Lettera del 1920, è l’odio, l’altra faccia della sottomissione. Un odio profondo e invincibile, con aspetti duri di fierezza e rivendicazione violenta, che dovrà essere superato, ma non si sa quando. È una parola forte, coraggiosa, pronunciata da chi in Bosnia è nato.
La parola di una sincerità totale pone Andrić accanto a Dante quando osa denunciare il cristianesimo corrotto e condanna senza mezzi termini papa Bonifacio VIII all’inferno tra i simoniaci e fraudolenti.
All’odio però lo scrittore aggiunge il sublime, con figure di un’estrema pulizia e levatura morale. Sono la vecchia nonna che non vuole razziare alcun oggetto nel giorno della caduta turca e del trionfo asburgico, perché "sulla disgrazia altrui nessuno è mai diventato felice" (Il tappeto). Sono i lavoratori della pelle, calzolai, artigiani vari quando nel loro vicolo buio (I sellai) donano prontamente i pochi spiccioli di rame che possono permettersi a storpi e mendicanti, per “la difesa da tutti i mali che in ogni momento possono capitare a tutti i viventi”. È il lattaio senza nome, impietosito dai carcerati liberati nell’estate del 1878, il quale versa del latte fermentato nelle ciotole vuote dei disgraziati ridotti a larve umane, con piaghe infette nelle gambe procurate dalle catene in cui erano stati tenuti. Lo fa “per il bene della propria anima” (Una giornata di luglio).
Il libro vibra di anima, grande e appassionata generosità, con il bene e il male individuati, che la scrittura mette in luce.
Riguardo ai libri e alla loro funzione, Andrić spende parole di sapore quasi sacro:
"Libri da cui mi sembrava si irradiassero luce e calore.”
Si lascia Sarajevo sapendo di portarla in cuore, con i suoi bazar, il grido “Allah jekdur” (Dio è Uno), la parola “Efendi” (signore) pronunciata con il rispetto autentico e le ragazze musulmane, “la bellezza che passa”, fasciate dai loro caratteristici “dimjie”, calzoni fermati alle caviglie da uno sbuffo. Con i suoi quartieri multietnici brulicanti di vita. Anche qui, come con la Drina, un fiume mormorante scandisce il ritmo del destino, vero protagonista, a cui si aggiunge sempre la scelta consapevole e doverosa del bene da parte dell’uomo.
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