Radici di salice
- Autore: Mima Campaner
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2021
Lo scorrere del tempo, oggi accelerato da mutamenti epocali di grande portata, è stato sempre uno dei cardini della riflessione umana, della filosofia e parte integrante delle opere letterarie. Pensiamo a Marcel Proust che scrive la sua monumentale Recerche per scoprire chi è veramente, da dove è partito, che cosa è diventato, quale l’approdo della psiche. Proust, partendo dal ricordo famoso di un dolcetto inzuppato nel tè, giunge al superamento del tempo-spazio e alla sua liberazione da ogni contingenza.
Lo stesso tema è centrale nella silloge di Mina Campaner, insegnante: Radici di salice (Samuele editore, pp. 2021, prefazione di Manuele Morassut).
Con fine sensibilità emotiva e al contempo meditativa, l’autrice si inoltra nei ricordi, legati alla terra friulana nel pordenonese, alla campagna fortemente sentita come radice perduta e perturbata; in questo ultimo senso le radici sono “divelte”. Il tempo ha mutato i luoghi e le persone. Chi siamo quindi?
“Il lago è cielo e il cielo lago sulla diga / di Ravedis, intorno l’ombra delle cime. / Si ergono armati piloni di cemento, / ma i versanti incombono sulla conca e / non sai se prevale l’uomo o la natura / sulla SR 251. L’effetto doppler / sull’asfalto, la rabbia della gola che accompagna il transito.”
Tornare nei paesetti mutati provoca uno sconcerto e un tremore che fa pensare. I campi non vengono più coltivati come in passato, quando la fatica dell’uomo non meccanizzata era compensata dal lavoro compiuto in unione vitalistica con la terra, sentendosi parte di una realtà globale appagante:
“[…] quando l’erba si girava con le forche / e si ammucchiava a covoni nei campi. / Ed eri grande abbastanza per salire / sul sedile di un vecchio rastrellone.”
“E chiedersi un giorno dove abitiamo.. ./ con le radici sradicate dalla terra / guardando da un fiume e i suoi argini / un paese cambiato, mentre gli “occhi” / sono rimasti di allora.”
Il distacco dalla purezza del suo antico Friuli è una delle tematiche essenziali di Pasolini, il poeta veggente.
Allora, nel ricordo, il tempo scorreva naturalmente senza la fretta odierna, il luogo natale tesaurizzava le radici dell’essere. Oggi anche a scuola il suono della campanella alla fine dell’ora di lezione è monito sinistro, sebbene liberatorio per la noia dei ragazzi: quell’ora non tornerà più.
Sono particolari colti nei versi asciutti, limpidi e spesso malinconici, testimoni dello sradicamento generale, di un’ansia e di una sofferenza sottile difficilmente espressa, anzi addirittura difficilmente individuata dall’uomo comune. Scompare lo stupore, tutto è come se fosse già saputo, quindi privo di sviluppo:
"E si chiese cosa fai quassù uomo, / non c’è nulla oltre l’orizzonte che / già non sai”
Ma non tutto è perso. L’artista in una lirica invoca le forze soprannaturali:
"Dio, quante prove prima di vedere / la luce della primavera, spegni / l’arsura di questo prato secco.”
Consapevole che soltanto il ricorso a qualcosa di più alto, lo chiamerei un mito a cui affidarsi, può farci ritrovare la pace a cui il cuore anela.
Le tre sezioni in cui è divisa l’opera sono un crescendo di perdita. Ma ecco che... Campaner sa invertire la nostra deriva e trova, ritrova la forza e la radice a cui riagganciarsi: è il mito della madre. Non soltanto la madre naturale a cui dedica la silloge, in cui vede un’eterna primavera, ma la madre figura universale. Madre natura, mater, materia, sostanza della vita, una divinità per gli orientali che posseggono culti dedicati al femminile, come per esempio Shakti, la sposa e la controparte di Shiva, il dio che continuamente distrugge, per ricostruire.
“Accarezzo il corpo di pietra / imponente, granitico, / fonte battesimale / piena di acqua effervescente / e mi immergo nel desiderio. / Ogni giorno una rinascita.”
Vuol dirci che siamo contenuti in un contenente, il grembo materno indistruttibile. È una radice impossibile da divelgere, ritorna. Il simbolo del salice che si piega è l’arrendevolezza a questo essere cosmico vivente, immenso e pure sentito nel mondo piccolo del nostro passaggio terreno.
Anche il dialetto è parola madre, a cui la poetessa ricorre con un realismo efficace, qui e là, specie nell’ultima poesia che corona il percorso.
Si resta appagati e convinti, legati a quella base presente e fedele, il substrato di ciascuno.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Radici di salice
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