Rivolta e tradimento. Sudditi fedeli all’imperatore raccontano il Quarantotto veneziano
- Autore: Non disponibile
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2012
Per avere una prospettiva originale sulla rivoluzione del 1848 a Venezia si può consigliare la lettura di Rivolta e tradimento. Sudditi fedeli all’imperatore raccontano il Quarantotto veneziano, ossia il numero 12 dei Quaderni di Storiamestre, curato da Piero Brunello e pubblicato nel 2012. Come suggerisce il sottotitolo, la raccolta di testi è stata realizzata con l’obiettivo di presentare il Quarantotto dal punto di vista di chi era dalla parte dell’Austria.
Il volume è introdotto e chiuso da due saggi, il primo è del curatore e quello conclusivo di Luca Pes, mentre in appendice è presente una riflessione di Stefano Petrungaro sui nazionalismi nella storiografia.
Nell’introduzione, Brunello chiarisce che nel 1848 la fine del governo austriaco a Venezia fu un fatto del tutto inaspettato, che generò subito tre interpretazioni distinte: secondo alcuni si trattava di un miracolo compiuto dalla Madonna; per i patrioti si trattò di una rivoluzione; mentre gli austriaci parlarono di un tradimento inaudito da parte dei funzionari e degli ufficiali.
La miscellanea ripropone in italiano cinque testi che presentano le testimonianze di chi ha assistito personalmente alle vicende quarantottesche. Ovviamente la memorialistica è un tipo di fonte problematico, poiché è il prodotto di punti di vista personali, quindi parziali e soggettivi (e in un caso come questo lo si percepisce chiaramente), tuttavia le analisi offerte dagli studiosi all’interno del volume contestualizzano perfettamente gli scritti ripubblicati. Tra questi vale la pena di citarne almeno tre.
Il primo testo è forse il più interessante: si tratta de La caduta di Venezia. Le giornate di marzo e le relazioni dell’Italia con l’Austria. Verità, franchezza, modestia di Anton von Steinbüchel (1790-1883), uno storico viennese residente a Venezia. Questo studioso austriaco conosceva Niccolò Tommaseo (1802-1874), letterato di gran fama, e l’avvocato Daniele Manin (1804-1857), noto per le sue idee patriottiche e sostenitore della lotta legale, ossia della rivoluzione moderata.
L’8 gennaio 1848 il Manin presentò una petizione che invocava la costituzione di un governo italiano e nazionale per il Lombardo-Veneto, con un’amministrazione economica separata, un esercito autonomo e la libertà di stampa. Un’azione così ardita non fu tollerata e il 19 gennaio venne eseguito l’arresto di Manin e Tommaseo, un fatto, questo, che a Venezia non fece altro che aggravare la situazione: in città la tensione era già palpabile.
Steinbüchel inizia il suo resoconto da giovedì 16 marzo 1848, giorno in cui gli giunse la notizia che a Vienna era in corso un’insurrezione e che Metternich era caduto: la novità era sulla bocca di tutti e fu la scintilla che incendiò l’animo dei veneziani. Il 17 marzo il piroscafo del Lloyd, partito da Trieste, portò la conferma definitiva delle notizie riguardanti la rivoluzione di Vienna e la fine della cancelleria di Metternich. Allora una gran folla si radunò subito in Piazza San Marco chiedendo al governatore civile, il Conte Aloisio Palffy (1801-1876), la liberazione di Tommaseo e Manin. Davanti a una simile mobilitazione l’aristocratico si arrese, dichiarando: “Faccio quello che non dovrei!”, e accettò le richieste della popolazione.
Pochi giorni prima, la moglie del governatore era stata insultata pubblicamente e presso il suo domicilio erano stati recapitati dei messaggi minatori in cui veniva minacciata l’incolumità dei suoi figli. A quel punto accadde qualcosa di imprevisto:
“All’improvviso […], ecco alle finestre aperte del secondo piano delle Procuratie Vecchie e dell’appartamento del conte Contarini Zaffo, apparire le mani delicate di entrambe le sue giovani figlie, con strisce sottili con i colori italiani, rosso, bianco e verde. Al di sotto, giovani uomini ben vestiti mostrarono questo particolare alla folla, che subito applaudendo proruppe in alte grida di evviva. […] Tutto ciò faceva parte di un piano; perciò ecco sventolare sempre più numerose strisce di stoffa; infine dalla stessa finestra spuntò su di una lunga asta una grande bandiera tricolore (italiana) cucita con ritagli di vestiti di ogni genere”.
Il giudizio del colto viennese su tali circostanze è pieno di disgusto:
“L’italiano, se lo si lascia al suo autentico sentimento interiore, non è mai meschino. Perciò è inutile dire quale impressione ributtante provocasse, a chiunque aveva conosciuto in Italia una consapevolezza delle origini grandiose e un senso elevato di tutto ciò che riguarda la vita pubblica, la vista di gente che si agitava […] come tanti urlanti orangotanghi”.
All’improvviso fu issato il tricolore italiano, ma Steinbüchel commentò velenoso:
“Si trattava solo di un pesante cumulo di stoffe cucite assieme alla bell’e meglio che non riuscivano a dispiegarsi. In piazza alcuni personaggi ben vestiti furono visti gettare soldi a piene mani nel berretto dell’uomo che aveva issato la bandiera”.
Ci furono i primi scontri tra i soldati e la folla, proseguiti anche la mattina successiva.
Come è noto, quella notte i patrioti si riunirono per decidere sul da farsi e scelsero Manin come loro guida. La mattinata seguente, il 18 marzo, il governatore civile si rivolse all’avvocato per chiedere un suo intervento a garanzia dell’ordine pubblico. Manin acconsentì, ma chiese il ritiro delle truppe nelle caserme e l’immediata istituzione di una guardia civica, Palffy decise di accontentarlo, ma con la promessa che il nuovo corpo seguisse le disposizioni della polizia.
Il 19 marzo l’atmosfera parve più tranquilla, ma si diffuse il saluto “Evviva l’Italia!” e Steinbüchel avanzò nuovi sospetti:
“Anche le truppe italiane dovevano aver ricevuto dai propri comandanti una libertà speciale, o per meglio dire senza limiti […] si videro i granatieri, con le mani piene di denaro e con i simboli italiani sul petto, fare il giro delle osterie senza vergogna”.
Il 22 marzo l’Arsenale venne clamorosamente occupato dai lavoratori; gli arsenalotti trucidarono il colonnello di marina Giovanni Marinovich, nato a Perasto nel 1793, che si era fatto odiare introducendo un nuovo regolamento inviso agli operai. Steinbüchel capì che quella era la fine, poiché chi possiede l’Arsenale è il padrone di Venezia.
Manin ricevette la notizia della sommossa verso le dieci di mattina, trovò lo stabile già pacificato e, sull’onda dell’entusiasmo generale, tenne discorsi in cui parlò apertamente di repubblica.
Il governatore asburgico era terrorizzato, gli si chiese di cedere il potere alla congregazione municipale, ma egli scaricò ogni onere sul comandante militare della città: il tenente maresciallo Conte Ferdinando Zichy (1783-1862), zio della Contessa Melania Zichy Ferraris (1805-1854), terza moglie del cancelliere Metternich.
Zichy capitolò immediatamente e la rivoluzione si compì: il potere fu temporaneamente assunto dalla municipalità, ma il 23 essa fu sostituita dalla nuova Repubblica Veneta democratica, presieduta da Daniele Manin.
“Evviva San Marco!” gridarono i veneziani, “Ma San Marco poteva vivere benissimo sotto il Governo austriaco” commentò Steinbüchel, il quale restò fermo sulle sue posizioni: “Nessun paese al mondo offre agli italiani vantaggi che solo l’Austria può loro garantire”, e arrivò a formulare una curiosa considerazione storica, asserendo che la forza dell’Impero Romano era sempre risieduta nel Norico e che quindi Vienna (discendente di Roma) fosse destinata a tenere unite l’Austria e l’Italia.
Il secondo documento del quaderno è la lettera del tenente Gustav, pubblicata il 4 aprile 1848, dal giornale Wiener Abendzeitung. L’uomo afferma di essere “un onesto tedesco”, “un fedele austriaco”, e la sua voce è piena di rabbia:
“Mai, mai avrei pensato di dover vedere con i miei stessi occhi l’aquila e gli emblemi imperiali buttati nel fango tra insulti e ingiurie, e i nostri soldati sono diventati i più grandi in questo!!”
Il testimone si sofferma soprattutto sul tradimento degli italiani.
Il terzo testo è l’auto-apologia redatta dal Conte Zichy, che fu accusato da una parte dell’opinione pubblica austriaca di essere un inetto, un codardo, persino un goloso e di avere un’amante italiana.
Zichy aveva assunto il comando della piazzaforte di Venezia nel 1842 e, già allora, aveva subito costatato che la marina imperiale non era “austriaca”, bensì (per la maggior parte) italiana. Nel suo scritto l’ufficiale cercò di spiegare che Venezia era del tutto indifendibile: abbandonarla, secondo lui, fu l’unica soluzione possibile.
Nel 1849, Zichy fu condannato a scontare 10 anni di prigione per aver consegnato la città senza combattere, nel 1851 venne graziato dal nuovo Imperatore Francesco Giuseppe (incoronato il 2 dicembre 1848), ma da allora visse una vita ritirata.
Rivolta e tradimento è un buon testo, interessante e ricco di spunti, che mette in luce l’importanza di ricercare e consultare le fonti austriache relative al Risorgimento per completare il quadro storico.
Chi scrive, però, si sente di esporre due osservazioni riguardo il volume. In primo luogo Luca Pes delinea un parallelo tra la rivoluzione del 1848 e quella del 12 maggio 1797 (cioè quella che ha posto fine al governo aristocratico a Venezia). In entrambi i casi il mutamento politico si risolve senza ricorrere alle armi e secondo il saggista il fatto è forse spiegabile con la continuità aristocratica ai vertici. Il suo pensiero è condivisibile, tuttavia egli non mette in risalto il fatto che nel 1797 i popolani erano dalla parte del governo veneto, pronti a difenderlo con le armi, e ne diedero prova saccheggiando le case dei francofili veneziani, mentre nel 1848 la plebe si schierò contro gli austriaci.
L’ultimo dei serenissimi principi, Lodovico Manin (1726-1802, Doge dal 1789 al 1797), capitolò nonostante la plebe veneziana volesse sacrificarsi per salvare la Repubblica, mentre Zichy, viceversa, si arrese con la consapevolezza che il popolo lo aveva tradito e stava dalla parte della rivoluzione. Tra i due casi c’è una grande differenza, che non va trascurata.
La seconda critica dello scrivente è legata al sottotitolo del volume: Sudditi fedeli all’imperatore raccontano il Quarantotto veneziano. Le testimonianze tradotte e ripubblicate sono certamente interessanti, ma manca il punto di vista dei veneziani. Nel 1848 tra i veneziani non c’era qualche legittimista? Leggendo il sottotitolo del quaderno questa domanda sorge spontanea, ma tra le pagine della miscellanea la questione non viene mai nemmeno accennata. Nessun veneziano rimase fedele all’Austria? Nel 1848 il Patriarca di Venezia, Jacopo Monico (1778-1851), benedì il tricolore, ma prima e dopo la rivoluzione il prelato si mostrò sempre devoto all’Austria, e già l’esempio di questo ecclesiastico sarebbe stato un caso illustre da approfondire. Sicuramente, sviscerare l’argomento del legittimismo a Venezia avrebbe richiesto maggiori ricerche, ma avrebbe reso il volume realmente completo.
Per il resto, Rivolta e tradimento rimane un lavoro importante, da associare magari alla lettura di una storia generale della rivoluzione veneziana del 1848.
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