Schiavitù e libertà sono unite in un binomio inscindibile, poiché l’una non può esistere senza l’altra. Ce lo ricorda il poeta turco Nazim Hikmet, cantore dell’amore e dell’esilio, in questa poesia dal duplice significato Sei la mia schiavitù, sei la mia libertà, una delle più intense liriche contenute nella raccolta Poesie d’amore (1964).
In questa poesia troviamo tutte le tematiche più care all’autore turco fuse in un unico canto: l’amore, la patria lontana, il desiderio di libertà e la pena provocata dall’amaro esilio. I versi di Hikmet sembrano sgorgare come sangue dalle ferite della carne e dello spirito, nascono dalla sofferenza e distillano come lacrime: appaiono naturali e necessari, un sussurro vitale dell’anima.
Hikmet scrisse Sei la mia schiavitù, sei la mia libertà dal buio di una cella, mentre scontava le torture e la dura solitudine del carcere, punito per la sua avversione al regime e la sua adesione alla politica comunista. Condannato, avvilito, stremato dall’isolamento e dalla sofferenza, il poeta pensa alla moglie lontana che nella sua mente diventa un tutt’uno con la patria perduta, in questa perfetta simbiosi tutto diventa rimpianto, desiderio, lacerazione. La parola si fa schianto, diviene forza sovrumana capace di spezzare le catene della prigionia; ed ecco che l’antro angusto della cella si fa visione di una terra dai profumi familiari, di una donna dagli occhi verdi, incredibilmente vicina eppure irraggiungibile.
“Sei la mia schiavitù, sei la mia libertà” di Nazim Hikmet: testo
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
sei la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d’estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro.
“Sei la mia schiavitù, sei la mia libertà” di Nazim Hikmet: analisi e commento
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Sei la mia schiavitù, sei la mia libertà è il racconto di una visione o, forse del delirio di un condannato, che trova nella parola poetica l’espressione del suo sogno proibito. Il verso incarna la nostalgia stessa del poeta, si fa tramite del suo mondo immaginario dando voce al suo rimpianto sino a cristallizzarlo in un’immagine precisa. La moglie lontana diventa quindi metafora della patria perduta: entrambe sono distanti, irraggiungibili e tuttavia così vere e reali nel pensiero da infiammare l’anima.
L’incipit è molto efficace e ci descrive la difficile condizione di prigionia vissuta da Hikmet. È rinchiuso in una cella, in un carcere dell’Anatolia, eppure in fondo al su cuore è un uomo libero e la poesia stessa si tramite del suo canto di libertà. Accostando due termini diametralmente opposti “schiavitù/libertà” Nazim Hikmet ritrae la condizione stessa del prigioniero e, al contempo, ci offre il più perfetto ritratto dell’amore. L’amore libera e rende schiavi, è passione e prigione, delizia e tormento. In quell’opposizione “schiavitù/libertà” il poeta racchiude l’essenza più complessa del sentimento amoroso che non è mai puro e trasparente, ma sempre torbido, un fondale chiaroscuro in cui si cela il demone della gelosia, il timore dell’abbandono, l’ossessione del desiderio. Ecco perché dobbiamo interpretare quel primo verso secondo un significato duplice: è l’angoscia dell’esule che sogna la patria e la libertà perduta; ma è anche l’uomo che arde di desiderio per la donna amata e sente la propria carne bruciata dall’arsura come in una notte d’estate.
In seguito la metafora si compie e diventa effettiva, Hikmet scrive:
sei la mia patria
La donna diventa l’immagine riflessa e speculare della Turchia, ma anche di un rifugio del cuore che sa dove deve tornare per trovare riposo. Emerge quindi l’immagine della donna che appare quasi un essere sovrumano, non donna ma dea: è “alta e vittoriosa” come la Nike di Samotracia. Ma la metafora più perfetta è quella che chiude il componimento:
sei la mia nostalgia
La donna diventa voce stessa della nostalgia, termine che deriva dal greco nostòs e algos, letteralmente: “dolore del ritorno”. Lo strazio di Hikmet vive in questo amore avvelenato dal rimpianto e dalla lontananza: l’archetipo “luogo-patria” si affianca a quello di “luogo-persona”, sono sovrapponibili e intercambiabili.
Il rimpianto della propria terra si fonde con il dolore per l’assenza dell’amata in una climax ineguagliabile. Nel momento in cui il poeta si illude si poter toccare l’amata infatti scopre di parlare con un fantasma, un prodotto della sua fantasia che gli sfugge tra le dita svanendo come in un voluta di fumo. L’inaccessibilità e la lontananza è ciò che definisce la nostalgia, l’essenza stessa che dà corpo a questo sentimento d’inquietudine che fonde insieme memoria e desiderio.
Proprio l’inafferrabilità della donna amata chiude la poesia dandoci l’esatta misura del tormento amoroso, che è per l’appunto “schiavitù e libertà”, rivelandoci che - pur non potendola avere - colui che la ama è condannato a cercarla sempre. In questo spettro, che è come l’illusione vana di un pellegrino nel deserto, possiamo scorgere anche la visione esotica di Istanbul, la città che sorge sullo stretto del Bosforo come una finestra spalancata sull’azzurro. Vicina nel ricordo, eppure separata da lui da ineludibili lontananze geografiche. Nazim Hikmet sarebbe morto a Mosca, il 3 giugno 1963, stroncato da un infarto dinnanzi alla porta di casa; chissà qual è stata la sua ultima visione.
La libertà per Hikmet era il sogno irraggiungibile di una città, di una donna, un desiderio palpitante ridotto in catene che aveva il nome antico di “nostalgia”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Sei la mia schiavitù, sei la mia libertà”: l’amore e la prigionia di Nazim Hikmet
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