La Sera di febbraio diventa riflesso di una condizione esistenziale amara nella poesia di Umberto Saba. In questa breve lirica - una delle più corte della sua produzione letteraria - l’autore del Canzoniere descrive il rapido avanzare del buio invernale che sembra inghiottire la città di Trieste, stringendola nella morsa del gelo, dell’oscurità e - per analogia - della morte.
La luna si leva alta nel cielo, la notte avanza rapida nelle vie dove dei giovani camminano abbracciati in cerca di divertimento e una malinconia profonda come un pozzo invade l’anima del poeta che vi sembra annegare. In soli cinque endecasillabi, Saba riesce a esprimere una condizione di straziante indeterminatezza esistenziale.
Sera di febbraio fu scritta nel 1943, uno degli anni più bui della storia mondiale. L’Italia era stretta nella minaccia del fascismo e delle leggi razziali; e Saba era ebreo. Era una situazione nella quale il poeta non vedeva via di scampo e dunque accresceva la sua cupa inquietudine.
Il pensiero della morte sorgeva inevitabile in quei tempi di guerra e di ferocia, Umberto Saba vi si accosta con la disperazione di un naufrago che d’improvviso trova la salvezza agognata.
Il testo è composto di frasi lapidarie, brevi e distaccate nelle quali la chiarezza espressiva del Canzoniere viene meno e si può cogliere, invece, la progressiva influenza dell’Ermetismo nello stile di Saba.
La poesia Sera di febbraio è contenuta nella raccolta Ultime cose (1935-1943). La prima edizione sarebbe uscita clandestinamente in Svizzera nel 1944 per la “Collana di Lugano”, insieme a Finisterre di Eugenio Montale.
Umberto Saba avrebbe visto il libro pubblicato solo nel 1945, dopo l’armistizio. In una lettera scrive del suo terrore e della sua angoscia e fa riferimento a un suo “libro in versi” pubblicato in Svizzera che non è riuscito ad avere tra le mani e quindi ancora non sa neppure “quali poesie hanno pubblicate”.
Una delle poesie pubblicate in Ultime cose era proprio Sera di febbraio, che riflette tutta l’angosciosa disperazione di un uomo che, impotente, vede avanzare inesorabilmente davanti a sé la tempesta turbinosa di un massacro.
Scopriamone testo, parafrasi, analisi e commento.
Sera di febbraio di Umberto Saba: testo
Sera di febbraio
Spunta la luna.
Nel viale è ancora
giorno, una sera che rapida cala.
Indifferente gioventù s’allaccia;
sbanda a povere mete.
Ed è il pensiero
della morte che, infine, aiuta a vivere
Sera di febbraio di Umberto Saba: parafrasi
L’apparire della luna nel cielo determina il rapido calar della sera nel viale. Indifferenti allo scorrere delle ore dei giovani si abbracciano per la strada diretti verso mete non definite per trovare divertimento in qualche povero svago.
Il peso della vita può essere sopportato, infine, solo grazie al pensiero della morte.
Sera di febbraio di Umberto Saba: analisi e metrica
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La sera più triste di Saba si insinua come un’incudine nel cuore. Tutta la poesia è pervasa da un’indeterminatezza oscura, ben lontana dalle “cose leggere e vaganti” del Canzoniere. Non ci sono bambine con la palla in mano e occhi colore del cielo, non c’è Lina con la sua sciarpa rossa, ma solo l’inquietudine della notte invernale che grava come un fardello e diventa una nube pesante, fitta di presagi. Cinque endecasillabi sciolti privi di rime, uniti da un’unica vaga assonanza “cala/allaccia” e inframezzati da un enjambement che sembra spezzare il discorso rafforzando il contrasto netto tra “notte e giorno” e affidando dunque l’ultima parola alla riga successiva.
Saba si serve di termini generici, astratti, accrescendo così nel lettore una sensazione di smarrimento simile a quella che lui doveva aver provato in quella notte di febbraio nel bel mezzo della guerra. D’improvviso il poeta sente che la vita non ha peso né direzione e vaga smarrito per le strade della sua città, mentre rapida avanza la sera nei viali.
La luna è già alta nel cielo ma nel viale riluce ancora l’ultima luce del giorno. L’inesorabile avanzare della notte diventa per il poeta metafora di una morte incombente. C’è il contrasto netto con la “gioventù indifferente” che non coglie la minaccia celata nell’oscurità e vaga per la strada sbandando e vociando diretta a qualche divertimento popolare, l’osteria, il cinema di quartiere, la latteria. Le “povere mete” di cui parla il poeta sembrano fare riferimento a un divertimento spiccio, che in realtà non soddisfa davvero e dunque ripercuote, come il gong di un tamburo, l’attonito sgomento e l’inutilità del vivere.
Saba sembra osservare i giovani a distanza guardandoli di spalle, con la consapevolezza di appartenere a un altro tempo che non è più congiunto al loro. L’io lirico appare così dissociato dal mondo che lo circonda, completamente avvolto in una sorta di bolla privata. La sua crisi interiore non si ripercuote all’esterno, è tutta penetrata nell’interiorità: ma la sua solitudine, così intima, percepisce in ciò che gli sta intorno una sorta di estraneità (si noti a questo proposito il plurale generico “indifferente gioventù”).
Nel finale si accresce l’indeterminatezza: il poeta si dissocia dal paesaggio circostante e sembra pronunciare una sentenza inappellabile e definitiva “è il pensiero della morte che aiuta a vivere”.
Il drammatico verso conclusivo ricorda il diktat ungarettiano contenuto in Sono una creatura:
La morte si sconta vivendo.
Un epilogo lapidario, una sentenza epigrafica. A differenza di Ungaretti, Saba tuttavia sembra lasciar risplendere un barlume di speranza: la morte qui si propone come sollievo all’inferno del vivere, viene offerta come una sorta di panacea, di cura.
La sera di febbraio diventa quindi teatro di un’illuminazione della coscienza, il fondamento di una nuova consapevolezza. Si tratta dell’io convocato a colloquio con sé stesso che d’improvviso comprende un’amara verità. La contrapposizione ossimorica tra morte e vita ritorna spesso nelle liriche dei poeti in tempo di guerra, dandoci così l’esatta misura del sentimento del tempo.
Sera di febbraio di Umberto Saba: commento
In quella notte di febbraio Umberto Saba era un uomo solo che percepiva sulle sue spalle tutta la complessità arcana di un secolo, il Novecento, che avrebbe dischiuso le porte a un’epoca di incertezze e smarrimento. È una poesia che parla della guerra pur senza nominarla, ma che soprattutto tratta la crisi del mondo - argomento quanto mai attuale - e in particolare la crisi dell’individuo, la sua condizione di alienazione nella società globale.
L’immagine della gioventù che si abbraccia e poi sbanda diretta verso “povere mete”, poiché non ha certezze e quindi si disperde, sembra quasi essere un preludio delle generazioni future, del tempo incostante e indeterminato che avrebbe caratterizzato il Dopoguerra.
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