Sette colpi a bordo
- Autore: Carlo De Risio
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
Solo due motosiluranti inglesi: è tutto quello che la nostra flotta è riuscita ad affondare a colpi di cannone in trentanove mesi di guerra in mare 1940-43. Lo segnala, con fredda determinazione e una punta di acrimonia, lo scrittore Carlo De Risio, nel volume “Sette colpi a bordo”, riedito nel 2018 (102 pagine, 13 euro) dalla casa editrice romana IBN, Istituto Bibliotecario Napoleone.
Sette colpi della propria artiglieria navale a bersaglio contro le unità nemiche. Appena sette, di grandi e medi calibri, in trenta scontri a fuoco contro le navi inglesi in Mediterraneo, dal giugno 1940 all’8 settembre 1943.
Sono pochissimi per una pur importante Marina come quella italiana e non si può nascondere la sorpresa. C’è da far cadere le braccia, considerato che il fenomeno della dispersione dei colpi era noto da decenni ai nostri comandi.
Il serio inconveniente, dovuto all’imprecisa taratura delle cariche di lancio dei proietti, si era rivelato in effetti fin dalla Grande Guerra. Dal confronto con l’artiglieria navale degli incrociatori austriaci e tedeschi ottenuti come preda bellica dopo la vittoria, si potè apprezzare la taratura al milligrammo che garantiva la massima precisione di fuoco alle navi delle potenze centrali.
Per i non addetti ai lavori, nel tiro navale un “colpo” di cannone di grosso calibro è l’effetto di un doppio caricamento. Il proiettile era spinto contro il bersaglio dalla combustione esplosiva di una carica di lancio, vale a dire una confezione (un cartoccio, un sacchetto) di polvere da sparo (cordite, balistite…). La velocità di uscita dalla volata (la bocca della canna) e la distanza utile (gittata) dipendeva dalla quantità di materiale esplodente “parzializzata” nella carica.
Al contrario di tutte le altre flotte nazionali, che conducevano studi accurati e per ammissione del nostro stesso Ammiragliato, le norme che disciplinavano il collaudo delle munizioni nella Regia Marina erano molto meno rigorose. E tali restarono colpevolmente, per vent’anni e più. Di conseguenza, la salva di colpi esplosi dai cannoni dello stesso calibro raggiungeva il bersaglio disperdendosi in punti di caduta molto distanti l’uno dall’altro, mentre le bordate del nemico erano più concentrate sul punto di arrivo calcolato.
Poco prima dell’entrata in guerra nel 1940, si era riscontrato che l’imprecisione delle nostre artiglierie navali era particolarmente accentuata sugli incrociatori da 10mila tonnellate (bellissime unità sdentate, quindi) e sui cacciatorpedinieri. Problemi anche per i pezzi da 320 mm delle corazzate anziane. Risultati migliori si riscontravano nell’impiego dei moderni 381 delle navi da battaglia tipo Littorio.
Perché non si pose rimedio? Non c’è stata risposta ufficiale allora e non c’è ora, nemmeno gli storici ne hanno una. Sciatteria? Pressapochismo? Scaricabarile? Conosciamo i difetti nazionali, si può dire che abbiano concorso tutti insieme a rendere insolubile una patologia congenita ben individuata.
Non fu il solo deficit della nostra pur generosa Arma Navale. Oltre al peccato originale del munizionamento difettoso, altri fattori incisero sulla condotta insufficiente rispetto alle aspettative e resero la nostra flotta un’arma “in potenza”, uno spauracchio nei porti più che un efficace strumento di guerra.
Gli altri difetti erano la mancanza di navi portaerei, il gravissimo ritardo nella progettazione di aerosiluranti, lo stop incomprensibile imposto alla ricerca sulla radiolocalizzazione (gli apparati radar).
Fin dall’inizio ci verificò un episodio tra il non sense e l’incompetenza operativa. Successe nel corso del primo scontro navale a Punta Stilo, dopo nemmeno un mese di guerra. Un fono nemico intercettato il 4 luglio 1940 annunciava un‘incursione della Mediterranea Fleet verso la Calabria di lì a cinque giorni. Non si tenne in debito conto, concentrando le forze navali italiane quelle acque, oltre alla squadra presente in zona per caso: da qui i deludenti risultati del combattimento che pure si verificò. Quella decrittazione? Scomparsa.
Sono tutti gli anelli deboli della catena, sui quali De Risio si sofferma nel volume, dedicando a ciascuno un ben strutturato capitolo di questa antologia sulle “carte mancanti” della Regia Marina, nel conflitto contro quella inglese, allora la prima nel mondo, per tradizione, armamento, addestramento e spavaldo impiego dei mezzi.
Nella parte dedicata alle portaerei che non c’erano, il ricercatore vastese mette in chiaro che la responsabilità del mancato approntamento di unità non dipese dalla gelosia dell’Aeronautica, né dall’insipienza di Mussolini. Fin dagli anni Venti, era stato lo stesso Stato Maggiore dell’Arma Navale a considerare superflua la costruzione di “incrociatori con ponte di volo”, perché costosi ed anche pericolosi: non avendo armamento sufficiente, andavano scortati da un numeroso naviglio d’appoggio e nell’insieme sarebbero rimasti facilmente esposti alla ricognizione e offesa nemica. Meglio sostituirli con la più economica cooperazione con l’aviazione, che però si rivelò difettosa e carente. Sicchè, ad affondare la portaerei italiana furono gli ammiragli, conclude De Risio.
Sette colpi a bordo
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