Sono un assassino
- Autore: Laurent de Graeve
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
“Che piacesse o no ai piccoli gladiatori dell’ambiente, era sui tacchi a spillo che i froci avevano imparato a camminare a testa alta.” (Pag. 49)
Lo scrittore Laurent de Graeve è morto nel 2001 all’età di trentun anni, lasciando incompleto il romanzo Sono un assassino (Instar libri, 2003).
Nella postfazione, Jaqueline Harpman scrive di libro incompiuto, di scrittura eseguita sotto la minaccia della morte, avvertita e sentita in maniera inequivocabile.
Laurent de Graeve muore di Aids e senza questo elemento il libro cambierebbe lettura.
Un giallo? Un noir? Come si potrebbe definire la struttura del libro?
Un delitto, sconvolgente per le modalità di esecuzione.
Un altro delitto, sempre tremendo.
Accettazione della sfida con il serial killer.
Indagine del poliziotto nel mondo dell’omosessualità.
La struttura è lineare, ma nel finale tutto si capovolge, la costruzione si ribalta, i personaggi diventano delle pedine di una società inquieta.
Il motivo della mutazione è la morte imminente dello scrittore, sentita come impellente:
“La morte mi si avvicina ogni giorno di più.” (Pag. 31)
“La bellezza e la gioventù non possono nulla contro la morte.” (Pag. 48)
Ad aggravare la tetra e desolata volontà di vivere, contribuisce l’odio dello scrittore contro Bruxelles. La città gli mette un’angoscia deprimente:
“A Bruxelles anche i piccioni si toglievano la vita.” (Pag. 11)
L’inquietudine della città è la parte noir, alcuni personaggi escono solo di notte e hanno condotte da vampiri cittadini.
Psicologicamente la lettura è data dall’ossessione, dal rapporto esagerato, con la mamma.
Innamorato della madre, vorrebbe essere come il padre, perché, nonostante il suo deplorevole comportamento, lui tende nell’immedesimazione paterna.
E come il padre agisce, perché un giorno decide, senza spiegazioni, di lasciare casa e studi per entrare nell’esercito.
Vuole allontanarsi dalla madre, lui vuole essere come l’odiato genitore.
La fase successiva è il senso di colpa.
Durante la lettura mi sono tornati alla mente due film:
American History X del 1998 diretto da Tony Kaye con Edward Norton, e
Fratellanza - Brotherhood del regista Nicolo Donato del 2009.
Nel primo un ebreo è un aderente convinto e duro di un gruppo politico nazista.
Il secondo è la storia di un confuso omosessuale, il quale è ammesso in un’associazione nazista danese.
Il collegamento è chiaro e diretto: entrambi i protagonisti appartengono al proprio nemico.
Il libro è un profondo atto di addebito contro gli omosessuali. La motivazione è ovvia: la rabbia. Laurent de Graeve è spietato, considera i gay e il loro comportamento la causa della sua imminente morte: gli omosessuali lo stanno per uccidere.
Denuncia barbara ma determinata dalla sofferenza atroce.
Tutta la storia è in soggettiva, perché William – il detective – è lo scrittore.
Allora calunnia gli omosessuali, per lui sono incapaci, passivi, indolenti e metereopatici:
“Erano scatenati… Dev’essere questo vento… Li fa impazzire…” (Pag. 44)
Oppure sono incolpati di essere dei ladri di comportamento:
“Questa è la differenza tra il tuo sesso e il mio. Tu rubi: io prendo.” (Pag. 30)
Oppure usa uno slang da darkroom:
“Sei anche ben attrezzato…” (Pag. 36)
Oppure li accusa di emarginazione e solitudine, inadeguati alle relazioni e all’amore:
“William era un cliente esemplare, che pagava in contanti e scopava senza fare storie.” (Pag. 42)
Solo alla fine, William sente accumularsi un sentimento di angoscia, assomiglia all’odiata Bruxelles, la sua fine è segnata:
“Tutto a un tratto morire di Aids gli parve démodé.” (Pag. 52)
La morte dello scrittore mi riempie di tristezza. Accetto la giustificazione di incompiutezza e credo che riletto e ricorretto avrebbe assunto una linea diversa.
Sicuramente nelle successive letture lo scrittore avrebbe eliminato le tante banalità:
“I mostri sono in mezzo a noi.” (Pag. 92)
“Non abbia paura della felicità […] La felicità non esiste.” (Pag. 93)
Spara delle sentenze definitive, poi ha una pausa e incantato osserva meravigliato la sua reazione, ma quanto sono bravo si urla, in realtà è il frutto della sua vanità:
“I delitti dicono sempre più cose sul mondo che su chi li commette.” (Pag. 69)
Oppure “Siamo tutti assassini mancati.” (Pag. 70)
Oppure “Non li ho uccisi, William: li ho liberati.” (Pag. 102)
Ma la mia preferita fra le frasi più brutte è: “In qualche modo doveva amarlo, poiché di questi tempi amare il prossimo è ancora il modo migliore per distruggerlo.” (Pag. 35)
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