Spartaco
- Autore: Theresa Urbainczyk
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2015
Spartaco è vivo, Spartaco lotta ancora, Spartaco non morirà mai
Dai testi degli storici contemporanei e di poco successivi, il romanzo Spartaco di Theresa Urbainczyk racchiude un’agile ricerca sulla rivolta di Spartaco e la lezione di un ribelle diventato per i posteri il simbolo della lotta per la libertà e la giustizia.
Spartaco è l’anima del proletariato di ogni secolo. Spartakisti erano i rivoluzionari tedeschi del 1919. Spartacus è un grande film 1960 di Stanley Kubrick. “Spartaco” è un volume tascabile della Universale Paperbacks il Mulino (128 pagine, 11,50 euro) di Theresa Urbainczyk, docente di classicità nell’University College di Dublino. Ed è proprio nell’immagine dell’attore hollywoodiano Kirk Douglas proiettata nei cinema di tutto il mondo, che quel gladiatore ribelle incarna il simbolo universale dello spirito di libertà. Ma davanti alla grandezza di Roma era solo un uomo, uno straniero, un trace quello che nel I secolo a.C. minacciò il potere del Senato e del popolo – e dei consoli – sconfiggendone ripetutamente gli eserciti sul suolo italico. Finì ucciso in battaglia, probabilmente, anche se il colossal lo preferisce nel finale crocifisso sulla via Appia, con i seimila prigionieri sopravvissuti allo scontro decisivo vinto da Licinio Crasso, il generale che aveva fatto costruire al centro della Calabria un vallo lungo 55 chilometri per tagliare i rifornimenti e chiudere nel sud dello stivale un’armata di decine di migliaia di schiavi.
Prima, però, Roma aveva tremato a lungo. Per la Repubblica Spartaco ha rappresentato la più grave minaccia: minava l’ordine costituito, era il nemico interno, i servi che si ribellavano ai padroni. Per un certo tempo, fece meglio dei romani quello in cui i romani riuscivano al meglio. Li vinse nove volte e dopo ogni successo le sue schiere crescevano, rafforzate dagli schiavi che gli si associavano, vedendo in lui il campione ribelle dei diseredati che si sollevano contro l’ingiustizia.
Diventarono oltre cinquantamila, qualche storico arriva a centomila. Fu la rivolta servile più numerosa e pericolosa, che Crasso soffocò adottando come monito sanguinario per il futuro la crocifissione sulla strada da Capua a Roma. Del resto, non era nuovo a gesti brutali. Per assicurarsi la disciplina e la determinazione dei legionari, non aveva esitato a ordinare in precedenza la punizione per decimazione delle coorti fuggite davanti agli schiavi. Un uomo ogni dieci, estratto a sorte, era stato bastonato dai compagni correndo tra due file. Con la decimatio, chi sopravviveva alle ferite era relegato fuori all’accampamento e non aveva diritto alla razione completa. Unico modo di redimersi era trovare la morte onorevole in battaglia.
Le sconfitte inflitte da un esercito di schiavi e non di guerrieri non erano state solo inattese e dolorose, ma avevano generato una profonda umiliazione. Ventuno secoli fa, Roma era una metropoli e dominava il mediterraneo. Niente sembrava potersi sottrarre alla superiorità delle armi repubblicane. Nel 73 a.C. un gladiatore trace non solo era fuggito ai padroni coi compagni, ma aveva formato un esercito, tenuto testa per anni al potere dell’Urbe, percorso la penisola fino al nord e scorrazzato nel Mezzogiorno in lungo e largo, devastando possedimenti.
Sule prime erano solo fuggiaschi (Appiano e Plutarco scrivono di settanta evasi da Capua), contro cui Roma inviò un pretore e tremila uomini. La minaccia non era stata trascurata, ma Gaio Glabro sottovalutava le capacità dei gladiatori, assediati sul Vesuvio. Sorpresa nottetempo, la legione consolare si dette alla fuga. I vincitori saccheggiarono il campo romano e fecero bottino anche di buone armi, visto che secondo gli storici antichi dovevano accontentarsi nei primi giorni di lame da cucina. Si aggiunsero pastori e contadini e la “marmaglia”, come la consideravano i romani, intraprese la via del nord, ma all’altezza di Mutina (Modena) tornò indietro (non si sa perché).
Intanto Spartaco vinceva e ingrandiva le schiere. Diventarono cinquantamila e forse più, contro colonne romane che non superavano ogni volta i diecimila soldati. Vinsero anche per questo, tanto che Crasso schierò un esercito di quarantamila uomini, ma non per il solo numero delle truppe riuscì dove altri fallirono, anche per l’approssimarsi delle forze di Pompeo e Lucullo alle spalle degli schiavi, chiusi in Calabria.
Per la vittoria a Crasso venne concessa un’ovazione, onore inferiore al trionfo: gli avversari erano solo dei servi. Pretese però una corona di alloro e non di semplice mirto. Un altro dei meriti fu il recupero di sei aquile consolari delle legioni sconfitte, ventisei stendardi e cinque fasci littori.
Dispersi e inseguiti gli schiavi, il generale ne risparmiò seimila, ma solo per farli crocifiggere lungo l’Appia. In duecento chilometri, una croce ogni trenta quaranta metri. Per ore risuonarono urla e lamenti. Nei giorni successivi, il tanfo della decomposizione aggiunse monito a monito.
Spartaco
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