Storia di una indocumentata
- Autore: Ilka Oliva Corado
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2017
La frontiera è un’immagine che affascina, che c’è stata venduta da scintillanti pellicole, dai film d’avventura accompagnati da melodie importanti e avvincenti; la frontiera sa di misterioso, sa di sconosciuto: potremmo leggerla come un’entità astratta, la cui definizione lascia spazio a fantasie irreali, figlie della mistificazione.
Tra il Messico e gli Stati Uniti, però, quell’immagine astratta è estremamente concreta e si pone tra due emisferi, come una vena aperta e sanguinante che si fa testimone di quei viaggi della speranza compiuti giornalmente da migranti senza documenti che tentano l’impresa di passare all’altro lato di un muro d’acciaio; che assiste a una crudeltà costante e impunita, sotto una luna che si affaccia su un deserto che altro non è che un cimitero clandestino e secco, data l’assenza delle lacrime di quei familiari che mai piangeranno i loro cari rimasti risucchiati nel fuoco di quell’inferno.
È proprio "agli immigrati indocumentati che sono morti nel tentativo, a quelli che sopravvivono alla frontiera della morte, a quelli che emigreranno" che Ilka Oliva Corado dedica Storia di una indocumentata. Attraversamento del deserto di Sonora-Arizona (Arcoiris, 2017, trad. M. Rossi), libro che narra il viaggio della speranza dell’autrice che, dal Guatemala, arriverà in Messico, per attraversare il deserto del Sonora, fino a oltrepassare il confine e giungere negli Stati Uniti, con una voce tagliente, autentica, amara e cruda, che si snoda in undici capitoli pregni di grande forza, di grande resistenza, dignità, quella di una donna che ha affrontato quel maledetto deserto a testa alta, mentre la sua pelle veniva lacerata dalle spine dei cactus adulti, unico riparo dalle imboscate della polizia.
Ma chi è Ilka Oliva Corado? Sarebbe ipocrita perdersi in frasi di circostanza, per una figura che prima di questo libro mi era – mea culpa – sconosciuta, così come sarebbe sbagliato pararmi dietro aggettivi insignificanti, per qualcuno che tra queste pagine non ha la pretesa di porsi – parafrasando le parole dell’antropologo italiano Raúl Zecca Castel, contenute nella prefazione al suo straordinario libro, Mujeres. Frammenti di vita dal cuore dei Caraibi, forse le più pertinenti al momento – come un’eroina, né tanto meno come una vittima; non come qualcuno da acclamare, né come qualcuno da salvare: "rappresenta unicamente se stessa", un soggetto concreto che fa fronte a una situazione tristemente reale; parallelamente, rappresenta anche quelle persone che ogni anno tentano la traversata, trasformate ahimè da retoriche talvolta menzognere, talvolta in buona fede, in asettiche percentuali o nell’oggetto di propagande politiche che mai si sono tradotte in azioni concrete. Io, come autrice dell’articolo, non voglio sommarmi a queste narrazioni.
Per questa ragione, scelgo di proseguire il racconto della storia di Ilka Oliva Corado, partendo dalle sue parole, da una citazione contenuta in una delle ultime pagine di Storia di una indocumentata. Lei si definisce come "lo spettro di una vita che è già stata", esattamente come gli altri migranti che erano arrivati con lei in quel centro di detenzione in Arizona.
E in quella vita che è già stata, lei era la figlia di una famiglia guatemalteca. Quando venne al mondo, nacque di spalle, come gli uomini, con la placenta ancora avvolta al suo corpicino: secondo una leggenda popolare centroamericana, portava fortuna. Voleva diventare un arbitro, si era allenata tutta la vita per farlo, per fare un mestiere che nell’immaginario collettivo era una prerogativa maschile. Aveva un fidanzato, una madre e una sorellina che amava da morire. Furono quest’ultime ad accompagnarla all’aeroporto che l’avrebbe portata in Messico, per poi avventurarsi verso la frontiera.
Prima della terza chiamata per l’imbarco, si raccomandò a sua sorella di fare del suo meglio; a sua madre, il ringraziamento per tutte le possibilità che le aveva dato, a prescindere che morisse o meno, nell’attraversare il confine; al suo fidanzato l’ultimo bacio, nella speranza di poterlo rivedere negli Stati Uniti (lo rivedrà). Gli ultimi minuti prima della partenza sembrarono secondi o giorni interi e finirono per trasformarsi in un tempo interminabile, quanto i chilometri macinati in quel tragitto serpentino attraverso cui, insieme al coyote, avrebbero percorso il deserto del Sonora, una volta lasciata Hermosillo.
In quella landa fredda e desolata, due ragazze morirono, prima stuprate, poi uccise dalla polizia.
E le parole incoraggianti, per motivare coloro che erano sull’orlo della resa.
Chilometri di persone, anziani, donne, bambini, che al fischio avrebbero dovuto scavalcare le recinzioni.
E il filo spinato non perdona, nemmeno i cani della polizia. Non perdonano gli aghi dei fichi d’India, dei rovi, né le raffiche di proiettili: non c’è romanticismo.
Eppure persino l’orrore è un vaso pieno di crepe, da cui riesce a entrare la luce: in Storia di una indocumentata quest’immagine trova riscontro quando in tutta quella crudeltà riesce a ritagliarsi uno spazio la solidarietà tra le persone; quando, a prescindere dalle insidie del viaggio, il feto nel grembo di una donna incinta sopravvive alla traversata.
È forse in onore di quella vita che squarcia un cielo tormentato da un temporale come un fulmine che Ilka Oliva Corado oggi è scrittrice e restituisce la voce a coloro a cui una voce è stata tolta, da chi ha sempre sostenuto che la parola di un indocumentato non valesse niente, ma queste persone "non sono mute e [...] le loro parole hanno il potere di risuonare come tutte le altre" (Mujeres, p. 11): è arrivato il momento di ascoltarle.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Storia di una indocumentata
Lascia il tuo commento