La sofferenza, specie la sofferenza dell’innocente, è l’unica seria obiezione all’esistenza di un Dio buono e compassionevole e, da sempre, rappresenta un problema serio per chi accoglie il volto del Padre che Gesù ci ha svelato. Perché soffriamo? A cosa serve il dolore? Questo saggio riflette, con semplicità, sulla sofferenza, interrogando la Parola di Dio, senza voler dare una risposta esaustiva che la Bibbia stessa non offre. Paolo Curtaz, uno degli autori spirituali più apprezzati e originali di questi anni, porta in questo volume intenso e profondo vicende personali e di altre persone segnate dal dolore, senza nessuna pretesa di dare risposte scontate, ma con il desiderio di seguire le poche tracce di luce che emergono dalla riflessione biblica e dall’esperienza di chi è passato attraverso la sofferenza riuscendo a scorgere una prospettiva di speranza. (Note di copertina)
Scrivo (e vivo) da agnostico: le questioni di fede mi interessano solo a livello intellettuale, non le ritengo fondate e nemmeno fondanti, se è per questo. Non coltivo livori particolari verso la categoria dei religiosi (è un mestiere oggettivamente difficile, il loro), ma mi guardo bene dall’iscrivermi alla setta dei così detti atei-devoti (Giuliano Ferrara et similia). Questo per mettere subito le cose in chiaro e darvi un’idea dello spirito (di parte?) con il quale ho affrontato “Sul dolore. Parole che non ti aspetti” (San Paolo, 2011) di Paolo Curtaz.
Il taglio è fideistico, niente da ridire, temo però che finisca con lo scontentare chi fedele non è e del resto è l’autore medesimo ad ammetterlo:
“Il dolore, specialmente il dolore innocente, è l’unico vero ostacolo a credere in un Dio misericordioso e buono”.
Parole sante (se mi passate la battutaccia), rivelatrici di una sfida impossibile: giustificare la sofferenza che - molto semplicemente - giustificazioni non ha, meno che mai dei mandanti nel regno dei cieli. Ricondotto a una dimensione di pura casualità, il problema del dolore (come, del resto, anche quello dei suoi tanti contraltari in positivo) è un finto problema: ci piaccia o no siamo frutto di mera contingenza, il nostro limite neuronale sta nel tentativo di assegnare senso anche là dove senso non c’è.
Dove sta scritto (se non nella nostra predisposizione cerebrale) che debba "per forza" esserci una ragione superiore al nostro stare al mondo? (e dunque al nostro soffrire, amare, procreare, o soltanto grattarci?). Perché porsi il problema del dolore, se non per “giustificarlo” alla luce di un piano compensativo ennesimo? (anche Dio soffre per amore, anche Dio è morto sulla croce, Dio è buono nonostante il dolore). Mi rendo conto di semplificare un po’. La questione è complessa ma, quanto meno per il sottoscritto, è una falsa questione. Il dolore è nel (del) mondo, punto. Ogni tentativo di ricondurlo a graduatorie (il dolore che salva, il dolore gratuito, il dolore incomprensibile, il dolore necessario, e via di questo passo), assumerlo in prospettiva extra-mondana, è legittimo ma suona, quasi sempre, come forzato e, in ultima analisi, vano, sia detto con il rispetto dovuto per chi riesce a “credere” anche contro ogni evidenza e a montarci sopra un’indagine apprezzabile sul piano speculativo ma vacillante su quello rigoroso della scienza (e, del resto, come poteva essere altrimenti? Anche il “sommo” Tommaso D’Aquino se l’è vista brutta con la lista delle prove dell’esistenza di Dio). Troppo duro? In tutta sincerità mi auguro di no: ho grande rispetto per le tesi impopolari e per chi le professa malgrado il conformismo (compreso quello ateo) che sembra essere diventato il timone ontologico di questi ultimi tempi.
Sul dolore. Parole che non ti aspetti
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