Sylvia Plath. Il lamento della regina
- Autore: Leonetta Bentivoglio
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2017
“Sylvia Plath. Il lamento della regina”, il piccolo libro curato da Leonetta Bentivoglio” per la collana Sorbonne della casa editrice fiorentina Edizioni Clichy, ci pone di fronte ad una figura molto mitizzata dal femminismo, quella della poetessa americana Sylvia Plath, le cui vicende biografica e poetica, così strettamente intrecciate, hanno fatto nascere una sorta di leggenda.
Leggenda che in questo accurato studio di Leonetta Bentivoglio, si ribalta, almeno in parte, restituendoci l’immagine completa, sofferta, dolorosa di questa intellettuale del secolo scorso, così atipica, così profondamente segnata da una esasperata sensibilità artistica che l’ha condotta ad esplorare gorghi profondi della psiche, temi esistenziali comuni ad ogni tempo, sentimenti solo apparentemente banali ma capaci di produrre ferite laceranti, mentre nella sua vita pubblica appariva desiderosa di normalità, di famiglia, di eleganza.
Sulla copertina di “Sylvia Plath. Il lamento della regina” e anche al suo interno, compaiono sfocate foto in bianco e nero che ritraggono una giovane donna bella e sorridente, sola mentre lavora, o in compagnia di sua madre Aurelia, dei suoi figli Frida e Nicholas, del marito Ted Hughes: in realtà, leggendo la completa biografia della poetessa, ci si accorge quanto poco queste immagini corrispondano alla profonda sofferenza, alla patologia quasi psichiatrica che aveva improntato la vita di Sylvia sin dalla giovinezza: la bravissima studentessa, l’insegnante capace, la redattrice di una rivista femminile non bastano alla inquieta poetessa, già molto sofferente, tanto che nell’agosto del 1953 compie un primo tentativo di suicidio. L’incontro con il poeta Ted Hughes, la passione, il matrimonio e i due figli nati dalla loro unione, la consapevolezza di quanto una maternità, pur tanto desiderata, sia nei fatti un ostacolo alla creatività poetica che più di ogni altra cosa le sta a cuore, non riescono ad impedire che la sua sofferenza trabocchi fino al suicidio con il gas, avvenuto nel febbraio del 1963, non prima di aver preparato la colazione ai suoi bambini.
Leonetta Bentivoglio, che dedica il libro a sua madre Mirella, straordinaria poetessa e studiosa di poesia visiva, non poteva non essere attratta dalla figura di Sylvia Plath, per le implicazioni sul versante del femminismo che tuttavia nel libro risultano, mi sembra, ridimensionate: Bentivoglio nel suo lavoro si attiene ai testi poetici, che affronta “come oggetto autonomo”, ed esce quindi da schemi e categorie ideologiche nella sua analisi, che portano il lettore ad una nuova e diversa conoscenza di Sylvia Plath.
Ecco dunque piccoli capitoli, ognuno preceduto da una parola chiave, capaci di raccontarci con sguardo critico ma anche profondamente empatico la dolorosa vicenda di questa giovane donna dalla straordinaria sensibilità poetica, condizionata dalla sua origine, il padre tedesco, sempre lontano, le ricorderà sempre lo sterminio degli ebrei nei lager, durante il periodo nazista, e proprio il suono della sua voce costituirà un’eco drammatica nel profondo della sua coscienza, presente in Daddy, la poesia dedicata al padre scomparso. Morte, sesso, marito, invidia, strega, madre, padre, colori, La campana di vetro, Ariel… in ciascuna di queste parti in cui il libro è costruito, Leonetta Bentivoglio riesce ad indirizzare il lettore verso una scoperta di aspetti diversi, spesso sconosciuti, di cui è sostanziata la poesia di Plath.
In “Sylvia Path. Il lamento della regina”, viene descritta la poliedricità delle immagini che Sylvia voleva dare di sé, cambiando aspetto ed identità a seconda di chi la stava guardando, ma alla fine non riuscendo davvero nel suo intento:
“I molti travestimenti non riescono a sopprimere l’essenza imperiosa della strega”.
Nella approfondita analisi dei testi poetici viene dato particolare risalto ai colori, che costituiscono una sorta di trama sottesa ai temi trattati: l’azzurro, il rosso del sangue, i verdi, il giallo acido, ma soprattutto il bianco, il non colore, che lei identifica con il colore della morte, riferendosi ad un verso enigmatico di Emily Dickinson. Nero è invece il marito Ted (Man in Black, 1959), nero il cappotto, le scarpe, i capelli, sottile metafora per raccontare la delusione di un amore finito. Nella parte finale di “Sylvia Plath. Il lamento della regina” vengono riportate pagine di diario, lettere, brani di poesie, capaci, pur nella loro icastica brevità, di consegnarci un ritratto inedito, vero, a tutto tondo, di questa figlia, madre, moglie, intellettuale, alla fine, donna straordinaria. Con la parola poetica Sylvia Plath ha saputo costruire un intricato e complesso universo di simboli, di metafore, riuscendo nell’intento altissimo della sintesi
“La parola, definendo, imbavaglia” (Patate, 1958)
ma altresì raccontando di sé anche aspetti della quotidianità e di una ricerca di normalità invano inseguite:
“Non c’è niente che mi faccia sentire a posto con me stessa come stare immersa in un bel bagno caldo” (La campana di vetro, 1963)
Grazie a questa ricerca così speciale Leonetta Bentivoglio è riuscita a ricostruire una vicenda dolorosa, ma straordinariamente attuale, di una personalità femminile emblematica, capace con la parola poetica di farci rispecchiare in sentimenti ed esperienze a vario modo intimamente comprese, quando non condivise.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Sylvia Plath. Il lamento della regina
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