T. Singer
- Autore: Dag Solstad
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Iperborea
- Anno di pubblicazione: 2019
Assodato il fatto che non solo la nostra esistenza, ma anche l’universo intero risultano sprovvisti di senso oggettivo, resto convinto che la specie umana surroghi il proprio esserci per la morte, da un lato attraverso la rimozione di questa sentenza ontologica, dall’altro per mezzo della creazione di succedanei di senso (ricorrenze, consumi, finte felicità, rifugi nelle religioni, ecc.). Un’altra brutta verità è questa: nasciamo e moriamo soli e fra l’una e l’altra solitudine passa un intervallo esistenziale inframmezzato di solitudini collettive (passatemi l’ossimoro che non è fine a sé stesso).
Ho molto apprezzato la lettura di T. Singer (Iperborea, 2019, traduzione di M. V. D’Avino), il romanzo più sfacciatamente esistenziale che Dag Solstad abbia scritto, incentrato proprio sul senso di isolamento interiore che attanaglia il protagonista. Una solitudine sconfinata, rimuginante, ossessiva, scelta-subita, quella di Singer, chiamato ad archetipo – commovente e feroce – della nevrosi intrinseca al mal de vivre della progenie umana. Il suo desiderio di inapparenza lo accompagna ab origine, indotto forse da un trauma puberale, ma prima ancora dal senso di inadeguatezza maturato nei confronti dello stare al mondo. Lo sguardo introverso di T. Singer (e di conseguenza le finzioni relazionali cui si costringe nel corso della vita) si colloca ben oltre l’accezione pessimistica: è una specie di cupa lungimiranza che lo (ci) restituisce all’assurdo, a un’afasia funzionale che pareggia i conti con i migliori romanzi di impianto esistenzialista.
T. Singer è dunque il racconto di un’impotenza (rispetto alla conformità) e di una dissipazione esistenziale come atti di coerenza a un’accezione ontologica priva di sovrastrutture ideali. Dag Solstad è gigantesco nel tracciare con minuzia ogni passaggio interiore, ogni sommovimento psichico, ogni blando tentativo di uniformazione, del suo personaggio. A pagina 24 lo troviamo intento a mitizzare “la sua giovinezza per paura della vergogna che infestava la sua persona”, quindi, raggiunti i 31 anni, bibliotecario in un paesino sperduto tra le montagne del Telemark. È qui che in apparenza declina se stesso in una parvenza di piccolo-borghese (lavoro, casa, moglie, auto, figlia acquisita) senza crederci fino in fondo. In una controllata pantomima di normalità che lo vede disponibile con clienti e colleghi di lavoro, ma mai fino al punto di esporsi davvero, fedele com’è al desiderio di anonimato, di un’esistenza trascorsa quasi in incognito.
Proprio quando la commedia umana sembrerebbe avere incluso Singer fra i suoi attori, un drammatico accadimento (che non svelo) lo costringe a venire a patti col suo sentire estremo, in un paradossale crescendo filosofico, di un realismo senza edulcoranti. Ultimata la lettura di questo romanzo bello e profondo, mi assale un dubbio che temo contenga un pleonasmo: chi è più malato fra il nevrotico Singer e una società che si illude di fornire soluzioni utili a fronteggiare il malessere che ci viene dalla vita?
T. Singer
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