Teoria del dramma moderno 1880-1950
- Autore: Peter Szondi
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Einaudi
Uno dei principali errori che si possano commettere parlando di teatro, a meno di non essere studiosi della materia, è quello di confondere il dramma con la tragedia. Questo ci viene probabilmente dal fatto che entrambe le parole hanno assunto, nella vita di tutti i giorni, un significato figurato che è sostanzialmente lo stesso: “non farne un dramma”, “non sarà una tragedia”, sono espressioni che vogliono semplicemente significare che la situazione in cui ci si trova potrà portare forse qualche fastidio, ma sicuramente niente di irreparabile.
In realtà, la tragedia è una categoria del dramma, insieme alla commedia e alla tragicommedia: il dramma è quindi la rappresentazione teatrale in senso lato, che comprende temi tragici, comici e presentanti entrambi gli elementi. Del resto, il significato originale della parola “dramma” è “azione”.
In effetti, però, questa “azione” è andata via via sfumando, in epoca moderna, in situazioni nelle quali prevalgono la riflessione, il ricordo, il rimpianto, e, in generale, l’immobilità.
Per questo si parla di crisi del dramma moderno in questo non facile saggio di Peter Szondi (Teoria del dramma moderno 1880-1950, Einaudi, 2020, traduzione di Cesare Cases) che cerca di analizzare i meccanismi che hanno portato a questo “smarrimento” del teatro pur attraverso la ricerca di nuovi punti di vista e modi di espressione. Lo fa prendendo in considerazione le opere di alcuni grandi drammaturghi come Ibsen, Cechov, Strindberg, Maeterlinck, Hauptmann, Brecht, Bruckner, Pirandello, O’Neill, Wilder e Miller, oltre al lavoro di un regista come Piscator.
Il dramma moderno nasce nel Rinascimento e si basa essenzialmente sul dialogo e sulle tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione (che, a essere precisi, tanto aristoteliche non sono, in quanto nella “Poetica” si parla diffusamente di quella di azione, si accenna in una sola occasione a quella di tempo, mentre quella di luogo non viene neppure nominata). Soprattutto, il dramma si svolge sempre al presente, riguarda accadimenti che si svolgono nel momento in cui l’azione si sviluppa. Il tempo non viene dilatato in quanto, in tal caso, si passerebbe alla dimensione dell’epica.
È in Ibsen che tale dimensione diventa una base per il dramma: i suoi personaggi sono ancorati al passato, con il quale hanno conflitti irrisolti che non si esplicano attraverso un dialogo fra di loro, ma attraverso una sorta di “conversazione interna” più con sé stessi che con i loro più o meno occasionali interlocutori.
Una tematica molto simile a quella di Cechov, che si basa però sulla rinuncia. I suoi personaggi, pur ancorati al passato come quelli di Ibsen, anelano a un futuro che non arriverà mai, e nel quale, in realtà, sperano invano: si muovono in una sorta di limbo nel quale l’azione è quasi totalmente annullata e tutto è sospeso a mezz’aria.
Con Strindberg arrivano la “drammaturgia dell’io”, totalmente incentrata sul protagonista, e il “dramma a tappe”, che lo vede incontrare via via diversi personaggi ma senza interagire veramente.
Con Brecht entrano in gioco il teatro epico, la predominanza della natura e lo “straniamento” dei personaggi.
Con Pirandello addirittura si nega ai personaggi stessi di portare in scena il loro dramma; fino ad arrivare a Miller e al suo riprendere Ibsen nel tema del ricordo, che non si esprime però più nelle parole dei personaggi, ma in una vera e propria azione, fatta di continui flashback di sapore cinematografico.
Ma è un punto di arrivo temporaneo: come fa notare lo stesso autore nella conclusione, il dramma moderno è ben lontano dall’essere concluso e archiviato. Questo era vero nel 1956, anno della sua pubblicazione, così come ancora oggi: la storia del dramma moderno non si è fermata e, malgrado i diversi momenti di crisi, ha ancora molto da dire.
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