Un alieno a Vanity Fair
- Autore: Toby Young
- Genere: Storie vere
- Anno di pubblicazione: 2007
Toby Young è un giornalista freelance di nazionalità britannica, che ad un certo punto della sua vita professionale ha deciso di tentare la “grande avventura” e di inseguire il suo “sogno americano”. Non aveva la minima idea di quanti ostacoli avrebbero sistemato sulla sua strada le diversità di mentalità e comportamento che esistono fra inglesi ed americani e la sua scarsa conoscenza dell’ambiente. Aggiungete a tutto questo il fatto che il settore giornalistico del quale Toby si occupa è quello scandalistico, e avrete una vaga idea dello scenario nel quale si è trovato a muoversi.
La trama sarebbe ottima per un romanzetto “al maschile” di quelli che vanno di moda adesso, una sorta di risposta a “Sex and the city” con poco sex, molta city, molto lavoro e varie spruzzate di comicità. Lo sarebbe, appunto, se non fosse una storia vera: nient’altro che la reale esperienza vissuta dall’autore, descritta con molta schiettezza, pochi peli sulla lingua, molti nomi e cognomi (anche famosi) e appena qualche marginale abbellimento usato semplicemente per rendere più divertente un paio di situazioni (almeno stando a quello che lo stesso Young afferma nell’epilogo).
Leggendo vari pareri su internet ho notato che, in alcuni casi, l’alquanto frivola combinazione di titolo e copertina ha tratto in inganno i lettori, convinti di affrontare la lettura di un romanzetto comico e che ne lamentano invece la quasi totale mancanza di azione. Non si può dar loro del tutto torto, in quanto titolo e copertina vogliono semplicemente riflettere la scintillante vacuità dell’ambiente del giornalismo scandalistico newyorchese, ma non certo la sostanza del racconto, che è, al contrario, la cronaca di una sequela di fallimenti ed umiliazioni. Non certo un romanzo, quindi: si potrebbe definirlo un reportage, o, in modo più azzardato, perfino un saggio.
Certo, ci sono momenti comici, costituiti essenzialmente dal racconto delle brutte figure del protagonista; figuracce causate, sì, dalla sua inesperienza, ma anche da una certa ribellione inconscia verso un mondo che non riesce a capire, nel quale si sente a tratti alieno, a tratti persona perfettamente normale circondata da alieni. Il succo del libro, però, è costituito dalle riflessioni di Young sulle ragioni per le quali il suo comportamento di giornalista fortemente “british” non trova terreno fertile nella redazione di Vanity Fair e, in generale, nel “bel mondo” di New York.
La principale risposta che Young si dà è che gli americani sono terribilmente seri. La minima battuta salace viene classificata come “molestia sessuale”, per non parlare di accenni a precedenti passi falsi dei colleghi o del capo, sebbene tirati in ballo con intenzione scherzosa e con il sorriso sulle labbra. L’umorismo inglese si scontra con la rigidità americana combinando un disastro dietro l’altro. Di riflessione in riflessione, potremmo chiederci se la negazione della meritocrazia non sia per caso un alibi dietro il quale Young nasconda la sua incompetenza, ma pensiamoci bene e ci renderemo conto che non è facile dargli torto. In fondo, negli ambienti lavorativi di tutto il mondo esiste più o meno lo stesso problema… Basta guardarsi intorno per trovarne riscontro.
Nel finale Young getta la spugna, schiacciato dalle difficoltà e dall’invidia verso chi, al contrario, riesce ad avere successo. Ma è una rinuncia momentanea: “Un alieno a Hollywood” è già uscito…
Un alieno a Vanity Fair
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