Un balilla partigiano
- Autore: Emanuele Cassarà
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2016
“Io coi fascisti non vado, salgo coi partigiani, in montagna”.
Era un duro Giuseppe, aveva solo sedici anni ma non si comportava mai da bambino. È così che lo ricordava il compagno di scuola Emanuele Cassarà. Lele, più piccolo di un anno, salì ugualmente con lui sui monti dell’Alta Val di Susa, in Piemonte, per andare coi ribelli. Sessant’anni dopo, il più giovane ha raccontato in un libro la loro avventura adulta, nata in maniera un po’ infantile. È “Un balilla partigiano”, che la casa editrice Priuli & Verlucca ha pubblicato nel 2016, nella collana I Licheni (pp. 190, euro 18,00, con 16 tavole fuori testo), dopo la prima uscita nel 2004 per le Edizioni Vivalda.
Giuseppe cadde lassù, con altri quindici combattenti per la libertà, il 20 aprile 1945, sedicenne per sempre. Anche Emanuele non c’è più, si è spento alla fine del 2005, a 76 anni, giornalista e scrittore di montagne, alpinista appassionato, tra i creatori delle gare di arrampicata, a Bardonecchia e in Trentino.
Morire a nemmeno vent’anni, a cinque giorni dal 25 aprile, data convenzionale della liberazione del Paese dai fascisti e dai tedeschi, che hanno ucciso Giuseppe e gli altri giovani a Condove. Cassarà non era tra loro. Era stato fatto prigioniero due giorni prima, incarcerato a Susa e condannato a morte, ma questo paradossalmente lo ha salvato.
Liberato alla fine della guerra, dopo una breve parentesi in mani nemiche, aveva subito cercato di sapere dai quindici partigiani superstiti com’era andata, ricavando però poche frasi laconiche, solo mezze parole. Sulle prime, la curiosità si era spenta e la vita lo aveva condotto a fare altro, ma sessant’anni appresso aveva deciso di venire a capo del sacrificio di Giuseppe e degli altri giovani.
“Un balilla partigiano” è il racconto di quello ch’è accaduto ed è un suo omaggio ai compagni. Era stata una gita da anziano in quei luoghi a convincerlo a fare chiarezza sul quel giorno di lutto per la Valle di Susa, un vasto anfiteatro montuoso, territorio di pascoli attraversato da piste e sentieri.
Nel catino prativo della località Vaccherezza (quattro casolari su un poggio), arena di boschi, di verde, di pietra e di neve d’inverno, avevano vissuto e lottato per venti mesi i partigiani della 114a brigata garibaldina. Lassù si era consumato un episodio violento, la notte in cui i soldati tedeschi erano saliti al buio per andare ad uccidere uno per uno quei ragazzi con tanti ideali.
Era soltanto un ragazzino allora, dice, e non si azzardò a fare domande. Era stato un piccolo fascista, come tutti. Un balilla, all’inizio, poi un balilla dubbioso, per le critiche rivolte dalla gente al regime che li aveva trascinati in guerra, ancora dopo un balilla pensoso, in cantina sotto le bombe e un balilla furente, davanti alle prepotenze e agli eccidi dei fascisti di Salò. Alla fine, un ex balilla, alla macchia con i partigiani.
Aveva seguito Giuseppe d’impulso, lasciando un biglietto al padre, che altrimenti lo avrebbe di certo fermato a schiaffoni, come capitò al coetaneo Omero, che voleva andare con loro. Comunque papà Cassarà, da buon anarchico era orgoglioso del coraggio del figlioletto, un ribelle ancora quasi bambino.
È sui monti della valle di Susa che i due balilla partigiani sono stati dal febbraio 1945 alla primavera della Liberazione (e della morte per Giuseppe). Tra alpeggi, baite e pareti scoscese, Emanuele ha fatto la staffetta portaordini, addetto al comando di un piccolo reparto, chiamato pomposamente 114a brigata d’assalto.
C’era il vezzo di chiamare “divisioni” e “brigate” le loro pur ridotte unità, Giorgio Bocca, il noto giornalista a suo tempo combattente nelle formazioni gielliste (del Movimento liberal-socialista Giustizia e Libertà), lo mette in luce nell’intervista concessa a Cassarà, pubblicata in coda al volume. Era un’abitudine introdotta dai partigiani comunisti, i garibaldini e dava l’impressione di dilatare le forze, sia pure soltanto a parole. In campo erano solo pochi, ma buoni.
A seguire, sempre in appendice, un’intervista al garibaldino astigiano Luciano Manzi, nome di battaglia Francia, sottolinea l’assenza in principio di un orientamento politico dei combattenti in montagna. La gran parte di chi vi andò non era politicizzato: le classi di leva 1923-26 si sottraevano al bando di arruolamento forzato nell’esercito repubblichino, che prevedeva la pena di morte per i renitenti, altri invece non volevano stare coi fascisti e i tedeschi, considerando che l’andamento della guerra li avrebbe visti sconfitti.
“È valsa la pena, i nostri non si sono fatti ammazzare per niente”
secondo Emanuele Cassarà: sparando, scappando, hanno insegnato a cercare la libertà, senza nemmeno sapere ancora cosa fosse.
Le immagini, specie quella in copertina, mostrano l’Emanuele di allora: un ragazzetto minuto, con un moschetto di traverso sul petto. Un vero partigiano ragazzino.
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