Una feroce libertà
- Autore: Gisèle Halimi, Annick Cojean
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2024
Femminista non si nasce, si diventa.
Parafrasando Simone de Beauvoir, di cui fu amica e alleata, è questa la massima di Gisèle Halimi, la battuta conclusiva di una vita sempre in prima linea, come testimoniano le pagine di Una feroce libertà (Fve editori, 2024, traduzione di Lamberto Santuccio). Halimi riprende la concezione beauvoriana secondo cui “l’individualizzazione è esistenza”, dunque che la si raggiunga attraverso l’esercizio supremo della libertà, ma la amplifica: laddove Beauvoir, nella celebre frase “Donna non si nasce, si diventa” distingue tra il nascere femmina e il diventare donna, scindendo dunque il dato biologico dalla categoria sociale-culturale, ecco che Halimi compie un passo ulteriore intensificando la fenomenologia del nascere in un esercizio di libertà moltiplicato. Non si tratta solo di realizzarsi come individuo, quindi di singolarizzarsi, ma anche di farsi portavoce di un’entità collettiva, di un contesto culturale, di una pluralità inderogabile di diritti.
Una feroce libertà (titolo originale Une farouche liberté, Éditions Grasset, 2020) è un libro-intervista, strutturato come un’appassionante autobiografia: l’avvocata francese, di origine tunisina, Gisèle Halimi racconta sé stessa alla giornalista Annick Cojean. Le lunghe risposte alle incisive domande di Cojean compongono il quadro di un’intera esistenza e dipingono l’affresco di un’epoca rivoluzionaria attraversata da grandi cambiamenti socio-culturali; ci rendono così partecipi del riscatto di una donna mai sottomessa, mai piegata, capace di emanciparsi da un contesto fortemente patriarcale, claustrofobico, un crocevia di libertà negate e realizzare sé stessa attraverso la forza della cultura, dei libri, unita a un’insopprimibile volontà.
Giséle Halimi è morta a Parigi nel 2020, il giorno dopo il suo novantatreesimo compleanno: la Francia salutava una “grande combattente”, l’avvocata “irrispettosa” che si era battuta per i diritti delle donne. Quattro anni dopo, il diritto d’aborto sarebbe stato approvato dalla Costituzione francese, ma Gisèle Halimi non visse abbastanza per vedere questo suo ulteriore trionfo, avverato postumo. Lei che era stata tra le principali firmatarie, nel lontano 1971, del Manifesto delle 343 (nell’originale francese Le manifeste des 343), apparso su Le Nouvel Observateur, in cui 343 donne francesi dichiaravano pubblicamente di aver abortito. Tra esse figuravano personaggi illustri, quali Beauvoir, Marguerite Duras, Catherine Deneuve, Claudine Monteil, ma anche molte “illustri sconosciute” che pagarono a caro prezzo l’aver aderito a quella battaglia, con conseguenze sociali ed economiche.
Il testo mostrò al mondo, per la prima volta, l’aborto come “problema sociale”, svicolandolo dal suo status di tabù. Era un atto di disobbedienza civile, nelle parole di Simone de Beauvoir, che di quel testo era l’autrice, oltre che la principale firmataria. Halimi fu l’unica donna avvocata a firmarlo, nonostante fosse ben consapevole di mettersi nei guai con l’ambito legale, giacché l’aborto era illegale in Francia; lo sarebbe stato sino al 1974, quando la Legge Veil avrebbe reso possibile l’interruzione volontaria di gravidanza in tutto il Paese.
La rivoluzione, però, era cominciata molto prima: la Legge Veil non era che il risultato di un lungo percorso realizzato anche grazie a un processo che aveva dato una scossa all’intera Francia sul tema dei diritti. Era il Processo Bobigny che vedeva imputata la giovane Marie-Claire Chevalier, colpevole di aver abortito clandestinamente nei sobborghi parigini - con l’aiuto e la complicità della madre - dopo essere stata stuprata da un suo coetaneo. A difenderla in tribunale è proprio l’avvocata Gisèle Halimi; sarà lei, una delle più importanti femministe francesi, a trasformare il Processo Bobigny in un caso politico. Davvero la sedicenne Marie-Claire Chevalier, vittima di stupro, aveva compiuto un gesto illegale? Con quale presupposto la legge la condannava alla galera per aver posto fine a una gravidanza indesiderata, non voluta, della quale, tra l’altro, avrebbe pagato le conseguenze per il resto della vita? Halimi rese il processo intentato contro Chevalier - tra l’altro accusata dal suo stesso stupratore - un clamoroso processo all’aborto. Era il principio di una denuncia collettiva.
Ma la storia di Gisèle Halimi ha inizio da lontano, come questo libro racconta: inizia con una bambina che cresce nella Tunisia rurale, in una famiglia ebrea del nord Africa, e sente l’ingiustizia fremere sulla propria pelle come una scossa elettrica. Avverte come una violenza la disparità di trattamento tra lei e i suoi fratelli maschi e anche l’autorità del padre nei confronti della madre; il fatto che alle donne venga riservata una posizione passiva, sottomessa, che siano relegate a un ruolo di cura e accudimento. Lei non ci sta e inizia a compiere una serie di piccoli atti di ribellione, che lasciano i genitori sconcertati, prima, infuriati poi; infine rassegnati all’idea di avere una figlia “ribelle”, ma dannatamente intelligente. Perché i suoi fratelli maschi sono liberi di giocare e lei no? Perché lei è chiamata a sparecchiare la tavola e loro no? Si può essere indignate sin da bambine per essere nate “femmine”?
Le domande semplici sono, in realtà, le più difficili.
La discriminazione patita nell’infanzia sarà, per Gisèle, il principio di tutte le discriminazioni e anche il metro di misura di tutte le ingiustizie. Non si accontenta delle risposte della madre, né degli accesi rimbrotti paterni:
“Ma che vuoi? Decidere da sola della tua stessa vita? Fare come nessun altro ha mai fatto?”
Sul momento la piccola Gisèle resta muta; le urla del padre la zittiscono, ma poi, nel chiuso della sua stanza, risponde alla domanda scrivendo con mano ferma sulle pagine del diario il suo grido di ribellione: “Sì, sì, sì.” La sua difesa sarà la lettura (legge avidamente Balzac, Molière, Stendhal, Hugo, Camus, gli autori francesi sono i suoi preferiti) e la scuola che le apre la strada dell’emancipazione e le offre, anche, l’agognata via di fuga.
Io avrei studiato, io avrei lavorato, io avrei fatto ciò che facevano gli uomini.
Gisèle voleva bastare a sé stessa; per questo suda sui libri, si incaponisce, si iscrive ai concorsi per ottenere borse di studio e non dover chiedere il becco di un quattrino ai genitori. A scuola è tanto brava da superare i fratelli maschi (una vera vergogna per la famiglia che riponeva ogni speranza nel primogenito) e con i soldi destinati alla dote matrimoniale decide di pagarsi l’università. A spianare il suo cammino sono anzitutto i libri, ai quali si aggrappa come a una solida speranza:
“Ero determinata a proseguire lungo la mia strada, poco importava se piacesse o meno. E questa mia strada passava anzitutto attraverso questo smisurato appetito di conoscenze. E tramite i libri per i quali mi appassionavo. Erano loro il mio principale nutrimento! Li osservavo, li tenevo in mano, li annusavo a lungo prima di estorcere il loro segreto. Sapevo che mi avrebbero aiutata a diventare me stessa”.
Così nel 1945, fresca di diploma, parte alla volta di Parigi. La sua “feroce libertà” è appena iniziata; è la tenacia di una ragazzina che ha il coraggio di urlare “Non è giusto!” e spalancare dinnanzi a sé le porte di un domani migliore. Dove la giustizia non esisteva era lei a crearla, per questo si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza. Percorre il cursus honorum della gavetta con la facilità di una predestinata: a Parigi studia diritto e filosofia, ma il diritto ha la meglio perché in lei fremeva:
“La rabbia che la spingeva dalla parte dei più deboli, degli emarginati”.
Doveva riscattarsi da una vecchia ferita. Nel 1949 Gisèle Halimi, quella bambina di Tunisi che correva nella polvere animata da una forza selvaggia è ormai cresciuta, e presta giuramento come avvocata - con la “A” si badi bene.
I genitori, che a lungo non l’avevano capita, sono di colpo commossi e orgogliosi. Quando viene iscritta all’ordine degli avvocati Gisèle contesta persino il testo del giuramento: che significa “il rispetto dovuto ai tribunali?” In nome di quale morale? Gli studi di filosofia si fanno sentire, reclamano la loro giustizia: l’avvocata Halimi non si limita ad applicare la regola, ragiona sul concetto di norma, lo analizza, lo critica. Gli anziani giudici sorridono e non le danno ascolto “Le passerà giovanotta”, dicono. Ma no, non le sarebbe affatto passata. Quella contestazione era solo il principio di tante altre battaglie.
Diciamo pure che ho prestato giuramento “con riserva”. Perché nel mio intimo avevo deciso che le mie parole, quest’arma assoluta per difendere, spiegare, convincere, le avrei pronunciate sempre con la più assoluta libertà. Senza rispetto per nessuna istituzione.
Nel 1956 è stabilmente in Francia dove lega il suo nome alla difesa dei diritti civili per i prigionieri politici tunisini e algerini: la posta in gioco è alta, si tratta di salvare degli uomini da una sicura condanna a morte. Gisèle sente la responsabilità di quelle vite appese a un filo, fa appello alla grazia del Presidente, non dorme la notte in attesa del verdetto. Questo è il primo gradino della carriera di Halimi, la difesa dei diritti umani; il secondo è ciò a cui lei ha sempre aspirato, la difesa dei diritti delle donne che le varrà l’appellativo di “avvocata femminista”. La parola d’ordine, il sottile fil rouge che lega ogni azione in un’unica catena, è sempre la stessa: “libertà”.
Ero ubriaca di libertà. Paura? Zero! Nemmeno un briciolo. Piuttosto mi ripetevo, rivolta alla vita: “A noi due!”.
Incredibile scoprire come alcune vite vadano dritte verso il proprio obiettivo, proprio come una freccia scoccata dall’arco che colpisce sicura il bersaglio. La bambina che si rifiutava di stare agli ordini dell’autorità paterna e gridava implacabile “Non è giusto!” sarebbe diventata una donna con la toga che, in tribunale, pronunciava quelle stesse parole dinnanzi a un giudice, rivendicando l’innocenza di un’imputata, trasformando un processo ordinario in un caso politico di fama internazionale.
La vita di Gisèle Halimi si legge con la passione che si riserva a una bella storia di cui si indovina il lieto fine, sebbene gli ostacoli non manchino. Al principio della sua carriera deve lottare con le unghie e coi denti, studiare e lavorare il doppio, perché deve dimostrare di essere brava due volte per sopperire al fatto di “essere donna”. Se vince una causa lo imputano al suo “fascino femminile”, se invece la perde è perché è “soltanto una donna”. La discriminazione strisciante, percepita sin dalla prima infanzia, sembra essere una costante nella vita di Gisèle Halimi. La professione di avvocata, però, è la sua difesa. Quando il presidente della Repubblica francese Charles De Gaulle la accolse nel suo studio salutandola con un ossequioso: “Madame o Mademoiselle?”
Lei rispose tagliente fissandolo negli occhi:
“Può chiamarmi maître, signor Presidente”
Mise subito in chiaro la sua posizione: il fatto di essere una donna non ammetteva intrusioni nella sua vita privata. Essere donna non legittimava il fatto che dovesse essere moglie, che dovesse essere madre e che, in assenza di questi ruoli, la si ritenesse incompleta. A quel punto la rivoluzione femminista di Gisèle Halimi aveva varcato le frontiere della sua terra d’origine, la Tunisia, ed era arrivata sino in Francia.
Avrebbe incontrato anche la sua paladina, Simone de Beauvoir, di cui non ci offre un ritratto indulgente. Bisogna distaccare la Beauvoir scrittrice dalla Beauvoir persona e Gisèle Halimi, che era una devota ammiratrice della scrittrice, rimase però delusa dalla persona.
Nelle parole di Halimi Simone de Beauvoir appare come una donna fredda, algida, a tratti persino glaciale, egoriferita, che non teneva in gran conto i sentimenti altrui. Gisèle le preferiva il marito, Jean-Paul Sartre, che ci descrive con caratteristiche molto più umane, come un uomo buono, generoso, totalmente dedito alla sua attività intellettuale tanto da astrarsi completamente dal mondo esterno, talvolta con esiti nefasti.
Gisèle Halimi fu amica di entrambi, li difese come avvocata in vari processi, e li invitò spesso a pranzo a casa sua con lei e il marito, dove si organizzavano lauti banchetti a base di vino e cous-cous. Insieme a Beauvoir, Gisèle Halimi avrebbe fondato l’associazione femminista Choisir la cause des femmes , lottando per la parità di genere tanto sul fronte economico quanto su quello sociale.
La sua stessa vita, del resto, era un manifesto di quel movimento: aveva abortito, si era sposata due volte, aveva avuto tre figli per scelta e si era dannata per dimostrare che una donna poteva essere madre e, al contempo, eccellere nella sua carriera senza sensi di colpa. Non aveva rinunciato a nulla, non si riteneva colpevole di nulla, non aveva rimorsi. Aveva dedicato la sua esistenza a un unico ideale, una “feroce libertà”, e a quell’ideale si era votata, come a una divinità.
Alle giovani donne di domani Gisèle Halimi, nella conclusione dell’intervista, dona un insegnamento prezioso: raccomanda loro anzitutto di essere “indipendenti economicamente”, perché nell’indipendenza economica sta il vero zoccolo della liberazione, la possibilità di emanciparsi dalla famiglia d’origine, la capacità di scappare in caso di violenza, di essere libere di esistere anche senza un uomo accanto. Diceva loro inoltre di non sentirsi obbligate a essere madri, perché la maternità non deve essere l’unico scopo nella vita di una donna; in questa concezione riprende Simone de Beauvoir, quando sostiene che “una donna non deve essere ridotta a un ventre”. E infine, Gisèle, raccomanda alle giovani donne di essere ambiziose, di sviluppare grandi sogni, di essere egoiste e di non aver paura di imporsi né di affermare la propria volontà:
“Ribellatevi! Pensate a voi stesse, una volta per tutte. A tutto quello che vi piace. A tutto quello che potrà farvi sbocciare, essere totalmente voi stesse ed esistere pienamente. Mandate a quel paese le convenzioni, le tradizioni e i cosa-ne-diranno. Fregatevene delle provocazioni e delle altre gelosie. Siete importanti. Diventate prioritarie.”
“Diventate prioritarie”. Non c’è augurio più bello per le donne di oggi, di ieri e di domani; a ben vedere sono tutte unite insieme in un’unica catena, in un abbraccio senza fine, tutte donne nate da donna, e stanno ancora marciando verso un domani più libero e giusto, pronte a obbedire all’unico principio della loro “feroce libertà”.
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