Scriveva per “sfogar l’interna doglia”, dunque per manifestare, liberare un dolore interiore, profondo, che già presagiamo senza cura. Sono le parole di Vittoria Colonna, poetessa italiana rinascimentale, la cui figura torna alla ribalta nella contemporaneità grazie a un libro, Il segreto di Vittoria (Piemme, 2024), scritto da Giulia Alberico. Poetessa per vocazione, artista e signora incontrastata dei circoli culturali, musa di Michelangelo, la marchesa di Pescara non può essere racchiusa in un’unica definizione: le sue identità sono tanto numerose quanto lo sono le sue esistenze, poiché Vittoria Colonna morì molte volte in una sola vita. Ma un artista donò al suo volto memoria imperitura trasfigurandola in una novella Maria Maddalena.
Scopriamo la sua storia e le sue opere.
Vittoria Colonna: la vita di una poetessa nel Cinquecento
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Aveva nobili origini, premessa necessaria in un’epoca in cui le donne letterate o dedite all’arte erano talmente rare da apparire inesistenti: l’istruzione, nella vita di una donna, era ritenuta un privilegio che poteva essere conferito soltanto da una valida posizione sociale e dalla ricchezza. Vittoria Colonna era nipote di Federico, duca d’Urbino; nacque nel 1409 a Marino, nel Lazio, da Fabrizio Colonna, massimo rappresentante di una nobile famiglia romana, e Agnese di Montefeltro. Fin dalla più tenera età, ancora infante e pura, è già promessa sposa: a lei spetta il compito di stabilire un’alleanza, attraverso il matrimonio, con la famiglia d’Avalos e garantire così sicurezza e protezione alla propria stessa famiglia, minacciata dall’ira dei francesi in seguito a un’alleanza infranta in passato. Vittoria, ancora bambina, è la prescelta, la “Delfina”, colei che garantirà che i patti nobiliari siano rispettati.
Tutto va secondo i piani e nel 1509, ormai diciannovenne, Vittoria diventa la sposa di Ferdinando Francesco d’Avalos detto Ferrante: era stata cresciuta, educata, con quella missione, l’unico culto che le era stato instillato, ancora infante, era quello del marito; a quell’uomo doveva essere votato il suo essere e la sua persona, era come una sacerdotessa vestale devota al suo Dio. Il marito di Vittoria tuttavia era un guerriero, che spesso partiva, lancia in resta, per combattere e trionfare. Nel 1512, durante la battaglia di Ravenna, cadde prigioniero: proprio a quella data, allo struggimento della lontananza, risale il primo componimento poetico di Vittoria Colonna. Nei versi convergeva la preghiera - che il marito fosse salvo - e il desiderio di riaverlo presto accanto. La poesia nasceva dal dolore, da un compianto senza nome, da una morte interiore che tuttavia non poteva neppure essere definita tale. La prima ferita fu la lontananza.
Nel 1516 la vita di Vittoria Colonna fu toccata da numerose morti: morirono il fratello minore Federico, il padre Fabrizio e, infine, pochi anni dopo l’amata madre Agnese, a soli cinquant’anni. Se è vero che una parte di noi muore con chi abbiamo amato, Vittoria Colonna iniziò lentamente a morire da allora. Fu anche il periodo in cui la marchesa di Pescara viaggiò di più: da Ischia a Roma sino alla Lombardia, la si riconosceva capace di stabilire alleanze, presenziare alle occasioni mondane, era benvoluta anche dal Papa grazie alla sua intelligenza, la sua devozione cristiana e il suo fascino. Era la portavoce del gruppo degli “Spirituali”, un movimento di riforma religiosa che vide coinvolti numerosi poeti, letterati e artisti del Cinquecento.
Vittoria Colonna non poteva avere figli a causa di un difetto congenito e decise di adottare il giovane Alfonso del Vasto, cugino del marito, cui faceva anche da istitutrice. La devozione di Vittoria al nipote, i suoi eccessi spirituali quasi claustrali, non passarono inosservati al tempo e finirono nel mirino della satira velenosa del poeta toscano Pietro l’Aretino.
Cristo, la tua discepola Pescara
che favella con teco a faccia a faccia
e ti distende le chietine braccia
ove non so che frate si ripara.
La devozione cristiana, la condotta claustrale di Vittoria, sarebbero state messe molte volte in discussione e furono vittime delle malelingue: il suo “difetto congenito”, si diceva, le impediva di avere rapporti completi, persino con il marito.
L’esistenza di Vittoria Colonna si capovolse senza preavviso nel 1525, quando fu avvertita che il marito, l’amato Ferrante, era stato ferito nella battaglia di Pavia. Non è chiaro se l’uomo fu ucciso da una ferita inferta da una spada o avvelenato con l’inganno; ma quel che è certo è che Vittoria non riuscì a raggiungerlo né a portargli il suo ultimo saluto. Lei si trovava sulla strada di Viterbo il 3 dicembre quando giunse la notizia, devastante, della sua morte. Era questa l’“interna doglia” di cui parlava con struggimento Vittoria Colonna nei suoi scritti.
La scomparsa di Ferrante accentuò il suo già acceso misticismo. Voleva chiudersi in convento, ma le fu impedito, persino dal Papa che ribadì che era necessario che lei praticasse un cristianesimo attivo. Continuò quindi a presenziare nei circoli napoletani e romani, ad avere un ruolo politico anche di rilievo, ma rifiutò sempre di sposarsi di nuovo, facendo così venir meno molte alleanze che avrebbero ben volentieri beneficiato della sua persona.
Le rime amorose di Vittoria Colonna presero a quel punto un accento più spirituale, furono consacrate infine dall’incontro forse più rivelatorio della sua vita: quello con Michelangelo Buonarroti.
Vittoria Colonna e Michelangelo Buonarroti
Vittoria Colonna e Michelangelo si conobbero a Roma nel 1530. Tra i due si instaurò un rapporto indefinibile, una sorta di “amicizia elettiva”, un’unione di anime affini. In un certo senso, era come se si conoscessero da sempre. A testimonianza del loro rapporto una fitta corrispondenza epistolare, ma soprattutto i sonetti che l’artista toscano compose per Vittoria Colonna, dedicataria designata.
Uno dei più celebri è il seguente, di cui riportiamo un estratto:
Quante più fuggo e odio ognor me stesso,
tanto a te, donna, con verace speme
ricorro; e manco teme
l’alma di me, quant’a te son più presso.
A Vittoria, Michelangelo dedicò anche delle opere ora andate perdute di cui però ci sono rimasti gli schizzi preparatori: La Pietà per Vittoria Colonna e La Crocifissione, che fu consegnato di persona alla marchesa perché potesse adornare una piccola cappella privata. In entrambe le opere un aspetto curioso è dato dalla figura della Vergine che trasuda un’emotività senza pari, assumendo maggiore rilievo rispetto alla persona di Cristo.
Fu sempre Michelangelo a definire la poetessa rinascimentale come Un uomo in una donna, anzi uno dio; molti hanno gettato su questa frase insinuazioni malevole di natura sessuale, ma in verità questa sentenza michelangiolesca testimonia la grande stima e ammirazione dell’artista nei confronti di una donna alla quale riconosceva un’intelligenza sopraffina, geniale e, contestualizzando nell’epoca in cui i versi furono scritti, ritenuta “virile”, dunque pari a quella di un uomo.
La loro fu una relazione puramente platonica, di natura spirituale: l’artista toscano aveva perso la madre appena bambino e riconobbe in Vittoria una presenza salvifica, forse fu l’unica donna che ammise davvero nella propria vita.
Quando Vittoria Colonna morì, nel febbraio 1547, Michelangelo modificò La Crocifissione dando alla Maddalena il volto di Vittoria. Il suo più celebre ritratto, che ancora oggi possiamo ammirare, fu tuttavia realizzato da Sebastiano Del Piombo nel 1520 ed è conservato presso il Museo Nazionale della Catalogna a Barcellona.
La morte precoce permise a Vittoria Colonna di salvarsi dalle minacce dell’Inquisizione che scorgeva in lei, nonostante la sua nota professione cattolica, un’eretica. Eppure era morta nel convento di Sant’Anna, circondata dalle suore benedettine, portando alta la sua fede. Delle sue opere, di cui persino Ludovico Ariosto cantava le lodi, ci è rimasto ben poco, nonostante lei avesse scritto 140 rime di argomento amoroso e 210 componimenti a tema sacro. La prima edizione delle Rime di Vittoria Colonna fu edita a Venezia nel 1544 con un lungo commentario a cura di Rinaldo Corso.
L’unica raccolta poetica allestita da Vittoria Colonna in persona, attorno al 1540, è contenuta nel manoscritto Vat. lat. 11539 e fu donata proprio al suo fedele compagno d’anima, ovvero Michelangelo. Lui la ritrasse donandole un volto immortale; lei le fece dono delle sue poesie, ciò che aveva di più caro. Lo scambio d’anime si era compiuto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Vittoria Colonna: la poetessa italiana del Cinquecento riscoperta in un libro
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