Il bambino che narrava storie
- Autore: Zana Fraillon
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Corbaccio
- Anno di pubblicazione: 2016
“Il bambino che raccontava storie” (Corbaccio, 2016, titolo originale The Bone Sparrow, traduzione di Valeria Galassi), è il romanzo d’esordio dell’autrice australiana, nata a Melbourne, Zana Fraillon che vive a Victoria con il marito e i tre figli, che ha lavorato come maestra e scritto numerosi libri per bambini.
Il volume, che ha conquistato gli editori internazionali alla Fiera di Francoforte, tratta con semplicità un tema tanto attuale quanto delicato, quello dei rifugiati, 60 milioni in tutto il mondo, fiumana di gente il cui incremento numerico senza precedenti ha trasformato la crisi dei migranti nell’argomento mediatico dell’anno che sta per chiudersi.
Forza e speranza, sopravvivenza e coraggio trapelano tra le pagine del testo, riuniti nella figura di Subhi, il piccolo protagonista del romanzo, un rifugiato nato in un campo di detenzione dopo che la madre è scappata dal suo Paese sconvolto dalla guerra. Ma la sterminata immaginazione di Subhi è in grado di spezzare la recinzione all’interno della quale il ragazzino è costretto a vivere.
“A volte di notte il terriccio là fuori si trasforma in un bellissimo oceano, rosso come il sole e profondo come il cielo”.
Subhi di mattino presto grazie alla terra ancora bagnata e schiumosa nei punti in cui è stata spazzata dalle onde, si mette a rintracciare le centinaia di animali che sono arrivati a nuoto fino alla tenda,
“i musi schiacciati contro i lembi nel tentativo di sbirciarci mentre siamo a letto”.
Ma nella Tenda numero Tre, dove dormono Subhi e sua madre non ci sono veri letti bensì vecchie brande militari con coperte ancora più vecchie. Un letto degno di questo nome è fatto di molle, cuscini, piume e
“le vere coperte non fanno prudere la pelle”.
Il tesoro più grande del bambino è una conchiglia, simbolo di libertà, che ha trovato nei pressi della tenda, premendola contro l’orecchio Subhi ascolta le storie raccontate dal mare. Non è semplice la vita all’interno del campo profughi, dove fa un caldo infernale, l’aria è pesante e difficile da respirare. Oggi le Divise hanno comunicato ai rifugiati che le provviste non arriveranno prima di domani. È solo l’ora di colazione ma il sole alto nel cielo è già un lanciafiamme. Il filo spinato in cima alla recinzione “mi ficca schegge di luce negli occhi”, così Subhi non può guardare da nessuna parte senza essere accecato. Eppure questo piccolo grande uomo che nella sua breve esistenza non ha mai conosciuto una parvenza di vita normale, non si arrende, cercando un compromesso mediante il quale andare avanti.
“Un libro di vitale importanza. Toccherà l’animo dei lettori nel profondo”. Con queste parole The Bookseller ha definito “Il bambino che raccontava storie”, nella cui postfazione Zana Fraillon precisa che ha narrato una storia di fantasia basata però su una realtà fin troppo concreta. Se da un lato i personaggi, i fatti e i luoghi descritti sono inventati, le politiche in base alle quali Subhi e i suoi famigliari sono stati posti sotto detenzione, e le condizioni che Fraillon ha descritto, non lo sono affatto. Le condizioni in cui si vive nei centri di detenzione e nei campi profughi variano da un luogo all’altro del mondo. Quelle raccontate in queste pagine sono state tratte da alcuni rapporti sulla vita nei centri di detenzione australiani. Ma è chiaro che il trattamento dei rifugiati e dei migranti rappresenta un problema a livello globale.
Se è vero che l’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha fatto appello a tutte le nazioni affinché smettessero di trattare i richiedenti asilo come criminali, ben vengano romanzi-denuncia come questo, che ricordano che in Australia come in UK, negli USA e in Europa, è normale prassi che i richiedenti asilo vengano detenuti insieme ai profughi e, dopo aver subito il prelevamento delle impronte digitali, in certi posti vengono contrassegnati da un numero.
“Ben presto la gente del mondo di fuori si ricorderà di noi. Presto capiranno che vivere qui dentro non è vivere. Dobbiamo solo mostrare loro chi siamo, che siamo delle persone. E allora loro sapranno. E questa volta non lo dimenticheranno più”.
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