Il poeta Guido Gozzano si spegneva a soli trentadue anni, stroncato dalla tubercolosi, il 9 agosto 1916. Gozzano moriva nella sua amata Torino, la città che l’aveva visto nascere ed era citata in numerose sue poesie, che aveva definito con parole intrise di dolcezza e malinconia “vecchiotta, provinciale, fresca tuttavia d’un tal garbo parigino”.
La poetica di Guido Gozzano
Il giovane Gozzano, nel fiore degli anni, fu stroncato dalla malattia terribile che lo cingeva d’assedio da almeno un decennio tra miglioramenti e implacabili ricadute. Sapeva che non gli restava molto tempo da vivere, in una lettera all’amata Amalia Guglielminetti, aveva scritto: “Si aspetta sorridendo la morte”. Una frase ammantata da un’aura di tragica malinconia, come del resto tutti i suoi versi. Gozzano era ritenuto, a torto, uno dei maggiori esponenti della poesia crepuscolare italiana: tuttavia ridurre la sua produzione alla corrente crepuscolare sarebbe impreciso.
Gozzano ebbe certamente una fase crepuscolare, in cui si ispirò principalmente all’opera di Giovanni Pascoli, ma non aderì mai del tutto a quella corrente poetica. La peculiarità dell’autore torinese risiedeva infatti nella virtuosa capacità - come scrisse in seguito Montale - di far cozzare lo stile aulico con il prosastico.
Certo la poetica di Gozzano coglie il mondo piccolo e ricco di dettagli del quotidiano, la tristezza e la solitudine che vi si annidano, la nostalgia che è parte della vita, tuttavia mescola a questi temi una certa ironia sagace, un guizzo di sorriso che talvolta fa capolino nei suoi versi illuminandoli di una luce nuova. Quella di Guido Gozzano era una poesia demistificata, che si allontanava dai modelli aulici, per dare vita a una lirica più moderna, che usciva dagli schemi prestabiliti per creare neologismi in grado di sfociare in nuovi orizzonti espressivi:
Vive tra il Tutto e il Niente/ questa cosa vivente/ detta guidogozzano!
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Il poeta torinese è oggi ricordato principalmente per un celebre verso, che ormai si accosta al suo nome per associazione diretta. Il nome di Gozzano si è letteralmente trasfuso in quel riferimento alle “rose che non colsi”: è diventato il poeta delle rose che simboleggiano le occasioni perdute.
Quel verso, intriso di malinconia e di una verità struggente, diventa la sinfonia stessa di un’esistenza che si è conclusa troppo presto, bruciandosi come una fiamma, in un tempo breve che ricorda la stagione delle rose.
Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state.
In questo passo possiamo cogliere uno dei temi ricorrenti nella poetica di Gozzano che è “l’incapacità di vivere” nel senso più pieno e profondo, quello stato d’animo malinconico ed estraniante che lo caratterizzava. Lui che già a venticinque anni si definiva “vecchio”, come se la sua giovinezza fosse sfiorita da tempo.
In occasione dell’anniversario della morte del poeta analizziamo più approfonditamente la poesia Cocotte, da cui è tratto il celebre verso. La lirica è contenuta ne I colloqui, la raccolta più famosa dell’autore pubblicata nel 1911.
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I colloqui rappresentano la seconda raccolta poetica di Gozzano, quella che lo consacrò al pubblico e al panorama letterario italiano. L’autore vi lavorò ininterrottamente a partire dal 1908 e in essa traspose il proprio itinerario esistenziale e intellettuale, sviscerando la sua stessa vita attraverso le parole.
La poesia Cocotte chiude la seconda sezione della raccolta, intitolata Alle soglie, e fa riferimento al ricordo dell’esperienza con una “signorina di malcostume” che ha rappresentato, agli occhi del Gozzano fanciullo, le attrattive sensuali del sogno e dell’evasione dal grigiore familiare.
Scopriamo testo, analisi e commento della poesia da cui è tratto il celebre verso gozzaniano “non amo che le rose che non colsi”.
Cocotte di Guido Gozzano: testo
I.
Ho rivisto il giardino, il giardinetto
contiguo, le palme del viale,
la cancellata rozza dalla quale
mi protese la mano ed il confetto…II.
«Piccolino, che fai solo soletto?»
«Sto giocando al Diluvio Universale.»Accennai gli stromenti, le bizzarre
cose che modellavo nella sabbia,
ed ella si chinò come chi abbia
fretta d’un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò di tra le sbarre
come si bacia un uccellino in gabbia.Sempre ch’io viva rivedrò l’incanto
di quel suo volto tra le sbarre quadre!
La nuca mi serrò con mani ladre;
ed io stupivo di vedermi accanto
al viso, quella bocca tanto, tanto
diversa dalla bocca di mia Madre!«Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?»
«Sì… vedi la mia mamma e il mio Papà?»
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità…«Una cocotte!…»
«Che vuol dire, mammina?»
«Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!»
Co-co-tte… La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d’ovo e di gallina…Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l’Isole Felici…
Co-co-tte… le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate…
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!III.
Un giorno – giorni dopo – mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
«O piccolino, non mi vuoi più bene!…»
«È vero che tu sei una cocotte?»
Perdutamente rise… E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.IV.
Tra le gioie defunte e i disinganni,
dopo vent’anni, oggi si ravviva
il tuo sorriso… Dove sei, cattiva
Signorina? Sei viva? Come inganni
(meglio per te non essere più viva!)
la discesa terribile degli anni?Oimè! Da che non giova il tuo belletto
e il cosmetico già fa mala prova
l’ultimo amante disertò l’alcova…
Uno, sol uno: il piccolo folletto
che donasti d’un bacio e d’un confetto,
dopo vent’anni, oggi ti ritrovain sogno, e t’ama, in sogno, e dice: T’amo!
Da quel mattino dell’infanzia pura
forse ho amato te sola, o creatura!
Forse ho amato te sola! E ti richiamo!
Se leggi questi versi di richiamo
ritorna a chi t’aspetta, o creatura!Vieni! Che importa se non sei più quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t’agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella
come Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!Il mio sogno è nutrito d’abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state… Vedo la case, ecco le rose
del bel giardino di vent’anni or sono!Oltre le sbarre il tuo giardino intatto
fra gli eucalipti liguri si spazia…
Vieni! T’accoglierà l’anima sazia.
Fa ch’io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacierò; rifiorirà, nell’atto,
sulla tua bocca l’ultima tua grazia.Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d’allora.
Il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni! Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovine ancora.
Cocotte di Guido Gozzano: analisi e commento
I testi di Guido Gozzano appaiono spesso come dei racconti in poesia. Attraverso i suoi versi l’autore era infatti abile nel ritrarre le atmosfere e i personaggi della borghesia piemontese d’inizio secolo.
Anche la lirica Cocotte procede infatti immergendoci gradualmente nella scena attraverso un’iniziale parentesi descrittiva: viene infatti descritto il cancello rozzo, immerso tra le palme del viale, dove avviene l’adescamento.
Proprio da quel cancello spunta infatti la candida mano che porge al bambino, ingenuo e puro, il confetto che pare rievocare il suo simbolismo biblico della mela. Quel confetto donato è infatti simbolo stesso del peccato e della corruzione che lenta si insinua nella mente candida del fanciullo.
A quella caramella donata segue infatti un casto bacio che strega il bambino come un incanto.
La poesia si snoda seguendo un ritmo narrativo che ci conduce via via attraverso varie cornici spazio-temporali e facendoci incontrare nuovi personaggi. Vi è quindi la madre che ammonisce il piccolo Guido, ricordandogli di stare lontano dalla vicina francese definendola una “cocotte”, una signorina di malcostume.
Il piacere provato dal bambino diventa quindi un piacere proibito. La sua immaginazione infantile paragona la giovane donna a una fata tenebrosa intenta a compiere misteriosi incantesimi. Fedele al rimprovero materno, tuttavia, il fanciullo obbediente si allontana dalla donna che emana quello strano incantamento.
Nella quarta stanza del poema abbiamo un salto spazio-temporale. Sono passati vent’anni, il piccolo Guido ormai è cresciuto, e ha fatto esperienza del mondo e dell’amore. Ora conosce il significato della parola “cocotte” che è ben lontano da quanto figurava la sua fertile fantasia di bambino.
In lui ora si accende vivo il rimpianto per la bella giovane che lo chiamava con voce suadente attraverso le sbarre del cancello. La definisce con consapevolezza “cattiva signorina”, ma la sua rievocazione è carica di nostalgia. Sono trascorsi gli anni e il poeta si domanda che ne sia stato della giovane: se sia diventata una donna triste, la cui bellezza è lentamente sfiorita, e sia stata abbandonata dall’ultimo amante. I trucchi e i cosmetici non riescono più a mascherare le rughe degli anni sul volto e il malessere interiore dello spirito. Forse quella presunta vecchiezza non è da attribuire alla donna, ma al poeta stesso che, provato dalla malattia, rimpiange la sua infanzia perduta, una parentesi dorata che ostinatamente rivive nel gesto della “cocotte” in cui si fondono, in una dolcezza inaudita, il confetto e il bacio.
Il poeta ora invoca quella donna “vestita di passato”. Lei è l’unica, dice, che lui abbia mai amato. La richiama attraverso i versi in un grido smarrito che ancora dice impetuoso: “Vieni!”.
La “cattiva signorina” diventa quindi la musa perduta, nutrita di sogno e nostalgia, incantevole come tutte le illusioni. Attraverso l’immagine della donna l’autore sembra rivivere il suo passato che torna indietro improvvisamente come un’onda. In lei si condensano tutti i sogni più cari e mai avverati, l’essenza stessa, gloriosa, dell’infanzia in cui il mondo è un tesoro da scoprire. Nella memoria del poeta la donna rivive bella, ancor più bella di com’era allora, e lui si propone di infonderle nuova giovinezza attraverso il ricordo quasi volesse lenire la tristezza della donna che, in un tempo remoto, non seppe consolare.
Nell’ultima stanza del poema Cocotte troviamo quindi la celebre strofa che può essere letta come un manifesto della poetica di Guido Gozzano:
Il mio sogno è nutrito d’abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state… Vedo la case, ecco le rose
del bel giardino di vent’anni or sono!
Il ricordo della Cocotte suscita nell’immaginario dell’autore una riflessione struggente sulla propria vita. Quel primo rimpianto, provato nell’infanzia, diventa la matrice originaria, emblematica, di tutte le occasioni perdute della sua esistenza. Ora che è adulto ricorda il bambino che è stato, rimprovera la quieta obbedienza che lo allontanò dal piacere proibito. La rosa non colta per paura della spina.
La rosa - fiore simbolo dell’amore per eccellenza - diventa metafora di una passione proibita. L’analisi psicologica-introspettiva che Gozzano attua in questi versi è profonda: quel primo amore mancato ha infatti condizionato tutti gli innamoramenti successivi della sua vita. Lo ha condannato ad amare nella lontananza, nel rimpianto, nel silenzio. Ama ciò che poteva essere e non è stato, proprio come la bella Cocotte che invitante gli sorrideva tra le sbarre del cancello: una rosa piena di spine da cui lui ritrasse la mano, rimpiangendo tuttavia di non esserne stato punto.
Il giardino perduto - che sembra rievocare un immaginifico eden - risorge dunque nella sua memoria.
Infine, attraverso la poesia, Guido Gozzano opera il sortilegio: ricostruisce il tempo perduto, lo fa rivivere. Immagina un esito diverso per l’intera vicenda, di poter porre rimedio al dolore che ignaro inflisse bambino.
È il ricordo della donna a ricondurlo per mano nell’infanzia, nel bel giardino odoroso e fiorito nella luce di inizio estate. E ora il bimbo non avrà più timore di parlare con la Signora - notare che nel finale Gozzano la redime, non la definisce più “cattiva” o “Cocotte”, come se intendesse risarcirla del torto subito in passato.
Tutto nel finale sembra essere ammantato da una luce splendente, dorata, salvifica come l’immagine di un paradiso. La donna prende per mano il bambino, e viceversa, sembrano sostenersi a vicenda nell’affrontare la vita. In quella stretta di mano il passato risorge: la Signora ridona al bambino l’incanto della sua infanzia perduta, mentre lui riporta alla donna la sua giovinezza ormai sfiorita. La poesia sfida la logica e ribalta le regole del mondo ricreandolo a immagine e somiglianza del desiderio.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Non amo che le rose che non colsi”: da quale poesia di Guido Gozzano è tratto il celebre verso
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