Nasceva a Sorrento, l’11 marzo 1544, Torquato Tasso, grande poeta e drammaturgo cinquecentesco.
È tuttora considerato uno dei maggiori poeti italiani dell’età della Controriforma. Nelle sue opere appaiono rappresentate, in incredibile anticipo sui tempi, le aspirazioni e le contraddizioni dell’uomo moderno.
Ma il genio di Tasso non fu compreso dai suoi contemporanei che lo scambiarono per follia.
Torquato Tasso: il poeta cortigiano
Torquato Tasso incarna perfettamente la figura del poeta cortigiano, il prototipo di intellettuale predominante nel Rinascimento. Nel 1565 Torquato fu assunto al servizio del cardinale Luigi d’Este e si trasferì alla corte di Ferrara, dove poté esercitare liberamente la propria creatività poetica. In questo periodo di grande attività letteraria compose L’Aminta (1573), una favola pastorale che tuttora rappresenta uno dei maggiori capolavori dell’epoca rinascimentale.
Esattamente un anno dopo la composizione del dramma, Tasso iniziò a dare i primi segni di squilibrio mentale.
Divenne preda di pensieri paranoici, ossessionato da manie di persecuzione. In questo periodo iniziò a comporre il proprio poema più celebre La Gerusalemme Liberata, che in seguito sottoporrà di sua volontà al vaglio della Controriforma autoaccusandosi di eresia.
Recensione del libro
Gerusalemme liberata
di Torquato Tasso
Nella vita di Torquato Tasso il confine tra genio assoluto e follia è labile quanto indistinto. Ma soffriva veramente di una malattia mentale? La sua follia era vera o presunta? Approfondiamo il tema della follia nel poeta cinquecentesco.
La follia di Torquato Tasso
Nel 1574, secondo quanto riportato dai dati biografici, Torquato Tasso fu colpito da una violenta febbre dalla quale non si riprese mai del tutto.
La leggenda narra che quella febbre fosse una conseguenza del forte sforzo intellettuale che richiese a Tasso la composizione de La Gerusalemme Liberata, monumentale poema epico dedicato alla presa eroica del Santo Sepolcro da parte dei cristiani durante le Crociate. Il poeta continuò a revisionare il poema epico per oltre vent’anni, in un lavoro certosino di riscrittura e continue revisioni, che completò nel 1593 con una nuova edizione dal titolo La Gerusalemme Conquistata.
Tasso divenne letteralmente ossessionato dalla propria opera. Era angosciato dall’idea di aver portato a termine un’opera non gradita dall’Inquisizione. Nel 1576 scrisse Allegoria, un componimento con cui rivisitava tutto il poema in chiave allegorica cercando di emanciparsi dalle possibili accuse di immoralità.
Le sue condizioni mentali tuttavia degenerarono precipitosamente: nelle lettere Tasso sembrava costantemente voler smentire le voci che vedevano in lui i primi germi della pazzia. Divenne inquieto e tormentato, decise di allontanarsi dalla corte di Ferrara e di trovare rifugio nella solitudine.
Nel 1577 venne colto da una crisi di “mal farnetico” così clamorosa e violenta che lo portò dapprima alla reclusione in un’area riservata del Castello Estense e, in seguito, nel convento di San Francesco.
Torquato Tasso e gli anni in manicomio
Si dice che la forte crisi psichica di Tasso fosse dovuta al conflitto, che il poeta viveva nel profondo dell’anima, tra mondo reale e mondo fantastico.
Riuscì a fuggire dal convento in cui era rinchiuso e a tornare nella città natale, Sorrento. Seguirono anni errabondi, di continui pellegrinaggi da una corte all’altra alla ricerca della protezione di un nuovo signore. Infine, provato da un girovagare inconcludente, nel 1579 Tasso decise di fare ritorno alla corte di Ferrara in una circostanza non casuale: il matrimonio del Duca Alfonso d’Este con Margherita Gonzaga.
Il poeta fece irruzione improvvisamente durante la cerimonia e diede in escandescenze, aggredendo il Duca. In seguito a questo increscioso episodio fu rinchiuso nel manicomio di Sant’Anna, dove restò per sette anni. Il Duca Alfonso lo fece imprigionare in un’ala dell’ospedale riservata ai malati di mente, dichiarandolo “pazzo”.
Durante gli anni di questa terribile reclusione Tasso scrisse la maggior parte dei suoi Dialoghi e numerose rime, procedendo a un’inesausta operazione di riscrittura del suo capolavoro, La Gerusalemme Liberata.
Uscirà dal manicomio solamente nel 1586, quando sarà accolto nella corte di Mantova da Vincenzo Gonzaga. Nei suoi ultimi anni di vita Tasso soggiornò a lungo tra Roma e Napoli, cercando invano la protezione degli ambienti ecclesiastici. Si dedicò alla nuova stesura del suo monumentale poema epico, La Gerusalemme Conquistata, sino alla morte avvenuta nell’aprile del 1595.
Le cause della follia di Torquato Tasso
Quella di Torquato Tasso fu vera follia? Pare che la sua instabilità mentale nascesse da uno stato di profondo dolore, dalla disperazione e dall’infelicità.
Forse oggi i più recenti studi in ambito psichico e psichiatrico affibbierebbero alla follia di Tasso un nuovo nome. Il poeta sembrava soffrire di una grave forma di depressione, acuita dalla sua spiccata intelligenza e dalla grande sensibilità che nutriva verso il mondo circostante.
Dalle testimonianze certe dell’epoca emerge che tra i contemporanei fosse diffusa la convinzione che Tasso soffrisse di una grave forma di alienazione. Da alcune lettere tuttavia emerge che in realtà il poeta fosse in perfetto stato di salute: sano nella mente, ma provato nel fisico dalle terribili condizioni patite nel manicomio.
Nel 1580 Camillo Ariosto, pronipote di Ludovico Ariosto, andò a visitare Tasso nel manicomio di Sant’Anna e scrisse una testimonianza del perfetto stato mentale del poeta.
In un’altra lettera inviata da Giuliano Gosellini a Domenico Chiarini, un paio di anni dopo, si può leggere che Aldo Manuzio visitò Torquato in manicomio trovandolo “intero e sano”.
Vide in uno stato tale miserevole il povero Tasso, non per lo senno, del quale gli parve, al lungo ragionare che ebbe seco, intero e sano, ma per la nudezza e fame che egli pativa prigione e privo della sua libertà; fortuna lagrimevole veramente e indegna di sì eccellente virtù.
Forse dunque non si trattò di vera follia, come la leggenda letteraria vuole tramandare ai posteri, ma di un ingiusto trattamento riservato al poeta dal Duca d’Este per cause che rimangono ancora ignote.
Furono le torture e l’isolamento forzato impostogli da Alfonso d’Este a portare il poeta alla pazzia.
Dal canto suo Torquato Tasso fu forse solamente colpevole di avere un genio smisurato e una mente forse troppo audace per il proprio tempo. Fu dilaniato dalla sua stessa sensibilità di poeta che avrebbe dovuto portarlo alla virtù e invece lo condusse alla rovina.
Il risarcimento postumo di Giacomo Leopardi
A risarcire Tasso dai torti subiti fu un altro grande poeta, Giacomo Leopardi, con il celebre dialogo Torquato Tasso e del suo genio familiare inserito nelle Operette morali (1824).
In una lettera dell’epistolario destinata al fratello Carlo, datata 20 febbraio 1823, il poeta di Recanati descriveva la sua visita sulla tomba di Tasso a Roma in questi termini:
Fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura.
Anche Leopardi dunque si interrogò sul destino dello sfortunato poeta cortigiano cinquecentesco e gli dedicò un’opera carica di pietà che è anche un’ode smisurata alla sua grandezza letteraria.
Trecento anni dopo Leopardi consegnò al mondo, tramite il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, una nuova immagine del genio straordinario di Tasso, incompreso dai suoi contemporanei.
Come stai, Torquato? Ben sai come si può stare in una prigione, e dentro ai guai fino al collo. Via, ma dopo cenato non è tempo da dolersene. Fa buon animo, e ridiamone insieme.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Torquato Tasso era pazzo? Storia di una presunta follia
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