La felicità del lupo
- Autore: Paolo Cognetti
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2021
"Fausto aveva quarant’anni quando si rifugiò a Fontana Fredda, cercando un posto da cui ricominciare."
"Che inizio memorabile", verrebbe da esclamare, all’unisono con il protagonista del nuovo romanzo dello scrittore e alpinista Paolo Cognetti, mentre riassapora nella mente l’incipit di un racconto di Hemingway. Del resto, la cifra distintiva di questo narratore consiste tutta, come per il grande americano, nel segno di una sincerità espressiva, nella capacità di "accorgersi che si era capaci di inventare qualcosa" (scrive per l’appunto Hemingway in un passo famoso); "di creare con abbastanza verità da essere contenti di leggere ciò che si era creato; e di farlo ogni giorno che si lavorava...".
Di questa stessa grazia che non è solo un fatto di disciplina, di questa facoltà di "creare con abbastanza verità" che già si riverberava nelle pagine del precedente romanzo, Le otto montagne (Einaudi, 2016), troviamo disseminate le pagine della nuova, felice, opera narrativa, La felicità del lupo (Einaudi, 2021).
Il romanzo è ancora una volta ambientato nel cielo di elezione di Cognetti: il paesaggio al contempo immobile e cangiante della montagna, con il suo tempo dilazionato e diverso, sottratto agli orologi, concentrato bergsonianamente in una durata a sé stante. Un tempo altro, situato in un altrove remoto e purtuttavia prossimo a noi, scandito dalle piogge e dalle nevicate; dal passo delle stagioni e dei lupi, presenze obliate e remote dal mondo contemporaneo, e ciononostante intatte in una loro dimensione mitica, affiorante nelle crepe e nei vuoti del tempo spazializzato, in cui (citando ancora una volta Hemingway) non importa tanto il mondo, quanto "sapere come viverci".
Fausto ha quarant’anni, un fallimento amoroso ed esistenziale ancora pungente che gli fa sentire a fior di labbra "il sale della libertà" e gli fa masticare "l’amaro della solitudine", quando decide di lasciare Milano e tornare alle montagne che conosceva fin da ragazzo. Quel paesaggio a 1800 metri sulle Alpi rappresenta la sua Heimat e oltretutto la sua infelicità, giacché
"quando ne stava lontano era stata tra le cause, o forse la causa dei problemi con la donna che era quasi diventata sua moglie."
Qui Fausto lentamente si riadatta a uno spazio e a un tempo differenti, convertendo tra quei paesaggi agresti e boscosi il tempo lineare dell’esistenza cittadina, che è il tempo della memoria umana, nel cerchio di un orizzonte conchiuso e insieme aperto, piegato al vento e alle valanghe, che è il tempo della fatica e dei cicli naturali, in cui, come in una miniatura di un Libro delle ore medievale, la vita si svolge nell’espiazione di una colpa originaria, trovando allo stesso tempo un motivo di riscatto, di rigenerazione.
Così Fausto, che nel piccolo borgo è stato ribattezzato Faus (ovvero, nell’idioma locale, "falso", insincero), abbandonate le sue velleità di scrittore di un solo libro, esaurite ben presto le sue risorse economiche, trova dapprima lavoro in pieno inverno come cuoco presso il ristorante di Babette, anche lei giunta anni prima a Fontana Fredda dalla grande città per fondarvi "una piccola comune di Parigi tra i ghiacci della Norvegia" come la protagonista di un romanzo di Karen Blixen. Di seguito, con l’avvento della Primavera, dopo un breve e doloroso rientro a Milano per liquidare i resti e i frantumi della vita precedente, sceglie di restare, trovando nuovi lavori e vicende all’ombra di quelle montagne, riprende confidenza con il potere germinativo della sensorialità (il legno vecchio, le resine, i profumi del bosco), fiutando, come il lupo ("il fuorilegge" che silenziosamente continua la sua lotta per l’esistenza con i suoi rivali umani) l’eccitante "odore della scoperta".
Anche l’amore è un altrove da conquistare, con un ufficio di attesa, di pazienza, scandito da quel cronotopo misterioso e presago che si incarna nel profilo della montagna. Fausto, in fuga da un amore che ha lasciato soltanto disillusioni e macerie, incontra nel ristorante di Babette (suo doppio e per molti risvolti, proiezione figurale del destino) una giovane cameriera, la ventisettenne Silvia, "aria da giramondo", unica e rara come "la fioritura fuori stagione, o i lupi che si diceva fossero tornati nei boschi", con cui instaura una relazione che sembra precaria e destinata a finire presto come i loro rispettivi lavori stagionali. C’è tuttavia nel gesto arcaico della ragazza di asciugarsi i capelli lunghi e lisci con la ruvida dolcezza che ricorda lo stesso soggetto di un quadro di Manet (quanti echi, in questo anonimo luogo di memoria tra le Alpi, di Parigi e della Francia, come a ricordarci che ogni alibi è un altrove, un luogo dello spirito che ci attende, trasfigurato, dove siamo già stati, e ogni fuga, anche la più velleitaria, è nient’altro che un ritorno) una promessa, un ritrovarsi, trasformati, in un punto più alto. Una promessa che si intuisce nelle parole impastate di languore e di sonno, e pertanto così veritiere, pronunciate dalla ragazza subito dopo l’amore:
"Sai, avevo trovato un libro di geografia per bambini, lì in libreria. Diceva così, che salire di mille metri sulle Alpi equivale a spostarsi verso nord di mille chilometri."
"Ah sì?"
"Sì, per il clima. La flora, la fauna e così via. Diceva che il clima cambia molto più rapidamente in altitudine che in latitudine, perciò anche un breve dislivello vale come un lungo viaggio."
Colpisce pertanto, alla luce spontanea e simbolica di queste riflessioni, il sapiente intarsio dei titoli che intrecciandosi nell’orditura della trama narrativa al numero progressivo dei singoli capitoli non rappresentano semplici macchie di colore oleografico, né tanto meno assolvono a una mera funzione paratestuale di ordine denotativo-descrittivo, ma conferiscono piuttosto profondità all’affresco narrativo, come se lo spirito dei luoghi, palpitante come una creatura vivente, con la sua componente magica e il suo sostrato di atavismo, informasse di sé azioni e pensieri di persone e cose assumendo la consistenza di uno spazio autentico di libertà.
Scorrendo questi titoli ("Un ristorantino"; "Il bosco caduto"; "La pompa di benzina"; "La casa vuota" ecc.) si ha l’impressione che essi siano i segnacoli di un viaggio incerto ma inscritto in coordinate antiche, tappe di un percorso di risalita, (superando ogni volta un nuovo dislivello, che ricorda quello dello scalatore) e del recupero di un’identità e un destino che non interessa soltanto il protagonista e i comprimari della narrazione, ma il lettore stesso, coinvolto suo malgrado in un processo di riscoperta che principia dalle topologie più elementari (il nord, il sud, l’altezza, la profondità, gli odori, i colori, il pericolo, la morte, la felicità...); quelle che la incessante "fiumana" del progresso umano (per rispolverare una vetusta metafora verghiana) ha travolto e neutralizzato nell’indistinzione che caratterizza gran parte della qualità del nostro tempo e delle nostre vite, riducendo fatalmente lo spazio della nostra libertà. I toponimi, gli alberi, le valanghe, e persino i semplici odori di una natura accantonata in un luogo sempre più residuale, all’estremo confine, si direbbe, della vita umana, ci appaiono come i segni di una grammatica essenziale, simboli marginali eppure evocativi e significanti di una sintassi sincera, in cui ritrovarsi nonostante le ferite e le fratture, ancora interi. Come il lupo...
La felicità del lupo
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Libro sopravvalutato. Ricalca la scia delle Otto montagne senza raggiungerne la vetta . Il lettore a tratti si perde e si annoia nelle descrizioni di una natura che dopo un po’ non ha più nulla da svelare . La storia d’ amore non decolla , non coinvolge , non attrae .
Con tutto il rispetto per chi ne ha tratto più chiavi di lettura ed ha sviscerato l ’ opera in chiave filosofica , io direi di mantenere un bel ricordo delle Otto montagne e almeno per questa volta passare la mano .