A futura memoria (se la memoria ha un futuro)
- Autore: Leonardo Sciascia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2017
Gliel’aveva proposto Mario Andreose, il direttore editoriale di Bompiani, e Sciascia, consapevole delle reazioni che il testo avrebbe suscitato, raccomandava di leggerlo con un atteggiamento distaccato, scevro da preconcetti:
"Questo libro raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia; e sulla mafia. Spero venga letto con serenità".
La sua è una polemica infiammata contro tanti luoghi comuni che infestavano il Paese, una decisa presa di posizione su fatti di cronaca e scelte della politica, sui fenomeni sociali e su questioni del diritto. Per questo metteva le mani avanti, citando in epigrafe un pensiero di Georges Bernanos: “Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli”.
Sciascia stava per morire. Senza neanche correggerle, aveva consegnato le bozze apponendo nell’Introduzione, dove affronta la questione del caso Tortora in una lettera al Presidente Pertini, la data "novembre 1989", priva dell’indicazione del giorno. Il suo ultimo testo, dunque: uscito postumo e da considerarsi come testamento. A futura memoria (se la memoria ha un futuro) è infatti pubblicato nel dicembre del 1989. Il titolo, che valorizza il ricordare, ha l’intento di offrire esperienze e riflessioni alle generazioni che verranno, ma il sottotitolo tra parentesi ha molto di scetticismo. Ripubblicato da Adelphi, il libro è scrupolosamente curato da Paolo Squillacioti che l’ha rivisto con non pochi interventi.
Ci si trova dinanzi a una raccolta di scritti, in tutto trentuno, pubblicati già su quotidiani e settimanali. Il primo articolo è del 7 ottobre 1979 e l’ultimo dell’11 novembre 1988. La mafia, il pentitismo e il "teorema Buscetta", i cadaveri eccellenti, l’ingiusta detenzione, l’errore giudiziario, nonché gli attacchi alla "casta intoccabile" dei magistrati, lasciati impunemente liberi nella "irresponsabilità", sono i temi trattati da Sciascia con una prosa letteraria anche aperta ad aneddoti e racconti brevi.
La sua personalità affiora dappertutto: da ogni ragionamento, da ogni invettiva intrisa di ironia. Tersa e inquieta la scrittura, secca e asciutta, orientata a mostrare lo scandalo della ragione attraverso la polemica civile. Egli è uno scrittore di cose nell’affrontare i terribili problemi della quotidianità. Gli piace il film di Duvivier, ambientato in una casa di riposo per attori dove, alla morte di un ospite, l’amico più caro si fa prendere dall’enfasi celebrativa per poi fermarsi all’improvviso: "no, non posso dire questo". Solo allora, annota Sciascia, "dalla verità sorge l’elogio più vero e commovente".
Vale la pena di riportare il pensiero di Salvatore Silvano Nigro (apparso su “Il Sole 24 Ore” domenica 26 marzo 2017):
"Può capitare talvolta che le conclusioni di Sciascia (ed è il caso del “suicidio” di Calvi) non siano più condivisibili (dopo anni e nuove acquisizioni). Poco importa. Voltaire si sbagliò sul caso Calas. Ma scrisse quel capolavoro che si chiama "Trattato della tolleranza"".
Si infastidiva Sciascia ad essere considerato un “mafiologo”. Diceva:
"Sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone".
Analogamente provava insofferenza a leggere che gli veniva attribuita, quasi volendolo ridimensionare, una mera "intuizione di letterato", allorché si scagliava in modo tagliente ed eretico contro il “folclore tenebroso” in cui venivano di solito assunti i fatti di mafia. Per lui l’obiettivo era la demistificazione della retorica e fino all’ultimo è stato impegnato come interprete dei fatti, di cui ha colto implicazioni remote e conseguenze possibili. Non a caso i suoi scritti scatenavano odiose e violente reazioni come l’infamante accusa di fare "il gioco della mafia". La verità è che Sciascia è stato uno scrittore scomodo per le posizioni assunte sull’assassinio del generale Dalla Chiesa o sul caso Tortora o sul maxiprocesso di Palermo e sulle testimonianze di Buscetta e Contorno.
Non dunque una mera "intuizione letteraria" la sua, bensì l’esercizio della ragione per l’amore per la verità. Acuta l’idea della mafia (“Corriere della sera”, 27 dicembre 1987):
"Non ho mai creduto che la mafia fosse un fatto fortemente unitario e piramidale; e ritengo che il crederlo produca fuorviazioni […]. La mia opinione è stata sempre che la mafia è una confederazione di mafie: qualche volta in pace, qualche volta in accordo, spesso in conflitto. Conflitti che è da credere nascano appunto dalla volontà di prevaricare, di sconfinare, di sconvolgere l’equilibrio federativo per farne per farne uno stato unitario e assolutistico".
Degno di nota I professionisti dell’antimafia, apparso sul “Corriere della Sera” il 10 gennaio 1987: articolo ad ampio raggio in cui il discorso sul fenomeno mafioso muove da lontano. Sciascia apprezza il dramma teatrale La mafia di Luigi Sturzo; rileva “come poi dal suo partito popolare sia venuta fuori una democrazia a dir poco indifferente al problema" e denuncia la procedura (“burocraticamente incoerente”) seguita per la promozione del giudice Borsellino al posto di Procuratore della Repubblica a Marsala. Il rischio, conclude, era che l’antimafia potesse trasformarsi in uno strumento di potere. Elevato il costo pagato.
Messo al bando dalla "retorica nazionale" fino all’estrema emarginazione, Sciascia reagisce volterrianamente, utilizzando gli strumenti dell’intelligenza e, con un’associazione letteraria sul "berretto di Charles Bovary", definisce "imbecilli" i falsari del risentimento nazionale. Cita pure l’amato Savinio: "avverto gli imbecilli che le loro proteste cadranno ai piedi della mia gelida indifferenza".
Al generale Dalla Chiesa piaceva identificarsi con il capitano dei carabinieri del Giorno della civetta, tanto da pensare che lo scrittore si fosse ispirato alla sua persona per tratteggiare la figura e il carattere di Bellodi. Nulla di male. Era un nobile sentimento e anche una bella illusione. Però non gli si riconosceva il soggetto vero della sua ispirazione: un generale dei carabinieri di nome Renato Candida. Commenta Nigro:
“Quando il disvelamento accadde, l’episodio venne letto (ecco di nuovo un caso di "complicazione" alla Flaubert) come un atto di bassa delegittimazione del generale Dalla Chiesa, fra l’altro caduto in un agguato mafioso a Palermo, insieme alla moglie e all’agente di scorta".
A futura memoria si chiude con il nome Candida:
"E infine, quel che i lettori si aspettano che io dica: non solo per "Il giorno della civetta", ma per ogni mio racconto in cui c’è il personaggio di un investigatore, la figura e gli intendimenti di Renato Candida, la sua esperienza, il suo agire, più o meno vagamente mi si sono presentati alla memoria, all’immaginazione".
Non a caso. Candida
"aveva scritto sulla mafia un libro che precorre di trentadue anni, rompendo il silenzio che le istituzioni e gli uomini che le rappresentavano rigorosamente mantenevano, quella volontà di abbatterla che oggi sembra anche diffondersi, oltre che nella coscienza degli italiani, nelle istituzioni".
Della sua biografia di eretico progressista, ha puntualizzato con una punta d’amaro orgoglio (“La Stampa”, 6 agosto 1988):
"Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità".
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