In un giorno d’autunno del 1821 tra gli spettatori che avevano invaso lo Sferisterio di Macerata in attesa della partita di palla al bracciale c’era anche un certo Giacomo Leopardi. In quell’occasione il giovane conte Leopardi poté assistere alla gloriosa impresa dell’eroe sportivo dell’epoca, ovvero il campione Carlo Didimi, che avrebbe presto trasfigurato in poesia.
Sulle “sudate carte” leopardiane infatti Didimi divenne il “garzon bennato” (giovane ben nato), ovvero il giovane baciato dalla fortuna, nato sotto una buona stella, il diretto contrario del passero solitario: Carlo Didimi rappresentava tutto quello che Leopardi non era mai stato e non sarebbe stato mai. Era un giovane coraggioso, scoppiante di salute e felicità, elogiato da folle di tifosi adoranti; l’esatto opposto del poeta.
Ma, chissà, forse fu proprio la vicinanza d’età - i due erano praticamente coetanei - e la gagliarda impresa compiuta da Didimi quel giorno a ispirare il poeta, che certo era un suo ammiratore e contribuì a perpetuare il mito di Carlo Didimi ben oltre le cronache del tempo.
Tra i Canti di Giacomo Leopardi ne troviamo uno singolare, dal titolo A un vincitore nel pallone (1821), dedicato proprio a Carlo Didimi, che inizia con un’invocazione:
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi
Nel testo lirico Didimi non viene mai nominato, né viene fatto riferimento all’attività sportiva - la palla al bracciale - da lui praticata. Il campione sportivo viene trasfigurato dal poeta in un eroe mitico, al pari degli antichi eroi che si erano battuti col “greco acciaro” nella battaglia di Maratona (dove gli Ateniesi trionfarono sui Persiani).
Forse queste immagini epiche affollarono la mente del giovane Leopardi mentre assisteva alla partita ed ecco che, nei versi, ci restituisce la sua meravigliosa visione, oltre a rievocare gli applausi fragorosi e le grida di incitamento che affollavano lo stadio (all’epoca detto “Emisferio”) in quell’occasione di festa. Va detto - per inciso - che la palla al bracciale era uno sport diversissimo dal moderno calcio, dunque questa pratica sportiva non può essere considerata un’antenata del calcio, che sarebbe giunto successivamente nel nostro Paese grazie a dei marinai inglesi.
Il poeta dell’Infinito nella prima strofa del suo componimento si augura che il nome di Carlo Didimi possa sopravvivere intatto allo scorrere impetuoso (fiumana) degli anni; forse ancora non immaginava, Leopardi, di dare un enorme contributo alla causa componendo quei suoi versi ispirati.
In quest’opera Giacomo Leopardi trasforma lo sport in un momento di rigenerazione sociale e civile, proponendo numerosi temi cari alla sua poetica come la superiorità degli antichi sui moderni, l’elogio dell’attività fisica e molto altro.
La lirica riporta in calce la dicitura “Finita l’ultimo di novembre 1821 a Recanati”, che ci permette di identificare lo stretto legame tra l’ispirazione del poeta e la contingenza dell’evento sportivo svoltosi presso l’Emisferio di Macerata.
Fu pubblicata per la prima volta nell’edizione bolognese dei Canti nel 1824.
Vediamone testo, parafrasi e analisi.
“A un vincitore nel pallone” di Giacomo Leopardi: testo e parafrasi
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s’alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l’echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell’età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
O giovane ben nato (nobile per natura), impara a riconoscere il vero volto e la voce piacevole della gloria, e quanto la virtù ottenuta col sudore superi l’ozio femminile.
Ascolta, ascolta, campione magnanimo, possa il tuo nome sopravvivere al trascorrere impetuoso degli anni, ascolta e rivolgi il cuore a un desiderio più alto (a più alti obiettivi, valori morali). L’intera arena che risuona di applausi ti incita a imprese illustri; oggi la cara patria prepara te, vigoroso nella tua giovinezza, a riportare alla luce gli esempi valorosi degli antichi.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l’ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D’emula brama il punse. E nell’Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L’alto sen dell’Eufrate e il servo lido.
Colui che guardò con animo insensibile i corpi nudi degli atleti nel campo di Olimpia, non sporcò nemmeno la sua mano nel sangue barbarico della battaglia di Maratona, né bramò la corona e la palma illustre della vittoria. E colui che lavò nel fiume Alfeo le criniere impolverate e i fianchi delle cavalle vincitrici, forse portò le insegne greche e le armi nel mezzo delle schiere di Persiani in fuga, tra le affaticate cavallerie; dove risuonava lo sconsolato grido dall’altro capo dell’Eufrate sottomesso a un despota.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l’opre de’ mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l’insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Giudichi forse inutile colui che cerca di rianimare le nascoste scintille dell’antica virtù? Colui che ancora rende vivo nei petti afflitti il fervore dello spirito vitale destinato a spegnersi? Da quando Apollo spinge il triste carro del Sole sono forse più che un gioco le opere dei mortali? È forse meno vano della menzogna il vero?
La natura stessa ci aiuta nella menzogna con inganni e facili illusioni, e dove il malcostume non seppe por rimedio ai grandi errori ecco che la gente mutò gli studi gloriosi in ozi oscuri e vergognosi.
Tempo forse verrà ch’alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l’aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l’atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Verrà presto il giorno in cui le greggi pascoleranno in mezzo alle rovine delle grandi opere italiche, un tempo in cui i Sette colli di Roma saranno solo terra da arare.
Forse tra pochi anni le città europee saranno solo tane per volpi, fra le poderose mura mormorerà al vento un’oscura foresta.
Se il destino non rimuoverà dalle perverse menti moderne la dimenticanza della gloria delle gesta antiche e delle passate imprese, se il cielo, impietosito dalle memorie di un tempo, non allontanerà l’umanità da una rovina ormai prossima.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch’ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s’onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne’ perigli avvolta,
Se stessa obblia, nè delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.
Bravo giovane, non ti auguro di sopravvivere alle rovine della tua terra. Saresti stato un dono luminoso per la sua vegetazione, ora spoglia, inaridita dal deserto.
La nostra colpa è fatale. La stagione è ormai trascorsa e oggi la nostra Madre terra non riceve più alcun onore, ma per te stesso solleva lo sguardo all’orizzonte: a che serve la nostra vita? Solo a disprezzarla.
Felice è la vita quando, dimentica sé stessa, travolta dal pericolo e non misura il danno corrosivo del tempo (“putri e lente Ore”); felice solo quando spinge il piede oltre il varco del Lete, il fiume dell’oblio, allora ci appare più gradita.
“A un vincitore nel pallone” di Giacomo Leopardi: analisi e commento
Il Canto di Leopardi, questo lo capiamo subito, non descrive una partita di palla al bracciale; ma va molto oltre, adducendo l’evento sportivo come pretesto per far risorgere le grandi azioni degli antichi, come appunto la citata battaglia di Maratona. Il poeta di Recanati si serve della metafora sportiva (incarnata dalla forza, il vigore, il coraggio) per spronare i suoi contemporanei dall’apatia in cui sono sprofondati, cercando di recuperare i valori di una civiltà che ha ormai smarrito ogni ideale e si sta dirigendo inesorabilmente verso la rovina.
Il “garzon bennato”, ovvero Carlo Didimi, diventa l’interlocutore privilegiato del poeta, poiché proprio la sua virtù - Leopardi deve essere rimasto incantato dai suoi prodigi sul campo - diventa lo stimolo per compiere più ardite imprese.
Il giovane Carlo rifletteva appieno anche l’ideale di sanitas corporea che Leopardi elogiava tra le pagine del suo Zibaldone, specialmente nel dicembre del 1820, quando si riferiva al movimento e all’azione come qualità utili a dissipare la noia, per Leopardi il peggiore dei mali come espresso anche nell’operetta morale di Torquato Tasso e del suo genio familiare. Il peso della noia è insopportabile perché è desiderio puro, privo di oggetto: ecco che Didimi viene a personificare tutto l’opposto della noia, incarna l’agilità, il movimento, la combattività, forse anche il desiderio inespresso del poeta di poterlo emulare.
Attraverso il personaggio di Carlo Didimi, Leopardi instaura un parallelismo tra due epoche altrimenti separate da una distanza siderale. Ecco che risorgono le barbariche grida della battaglia di Maratona, gesta eroiche, imprese gloriose: attraverso questa lunga digressione a Leopardi è concesso di ribadire la superiorità degli antichi rispetto ai moderni, intesa sempre come superiorità morale.
“Siamo nani sulle spalle dei giganti”, affermava Bernardo di Chartres per ribadire il rapporto di interdipendenza tra la cultura antica e quella moderna e mostrare il debito che noi nutriamo sempre nei confronti degli antichi.
La stessa concezione è ripresa da Leopardi, con la differenza che il poeta di Recanati non crede nelle “magnifiche sorti e progressive” del suo tempo.
In A un vincitore nel pallone (1821) ritroviamo già, con sconcertante anticipo, temi e atmosfere che sarebbero state successivamente riprese nella Ginestra (1836), considerata il testamento spirituale di Leopardi. Specialmente nelle due strofe finali della lirica dedicata a Carlo Didimi emerge un paesaggio sconfortante, desolato, apocalittico, che avvera una drammatica profezia: verrà un giorno in cui i colli di Roma saranno arati e vi pascolerrano le greggi. Leopardi prevede la fine di un impero e di una civiltà; la stessa atmosfera spettrale che fa da sfondo alla Ginestra, preannunciata dalla citazione del Vangelo di Giovanni proposta in epigrafe:
“E gli uomini vollero piuttosto
le tenebre che la luce”.
Leopardi citava in particolare questo verso per dimostrare la sua teoria secondo cui gli uomini preferiscono affidarsi a immagini ingannevoli ma consolatorie, anziché vedere la verità. La stesso teoria è presente anche nei versi di A un vincitore nel pallone, quando il poeta ribadisce che la natura stessa ci inganna facendosi schermo dell’“arido vero”, “Inganni e di felici ombre soccorse Natura stessa”.
In questo Canto sono dunque già presenti in nuce molte tematiche che saranno successivamente sviluppate nei componimenti del Leopardi più maturo, pensiamo ad esempio alla domanda qui formulata: “Nostra vita a che val?” che ricorda lo straziante interrogativo posto nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1830): “Dimmi, o luna: a che vale/ Al pastor la sua vita,/La vostra vita a voi?”.
La differenza è che in questi versi Leopardi ripone la propria speranza in un uomo: Carlo Didimi, confida in lui perché sappia risvegliare negli uomini il coraggio e la passione per la vita che ribolliva nelle vene degli antichi eroi. La conclusione del Canto dunque non è triste come può sembrare, ma consolatoria. Attraverso l’immagine del suo eroe moderno - Carlo Didimi -, che si augurava potesse sopravvivere al tempo, Giacomo Leopardi celebrava una nuova virtù, in grado di combattere la noia e la vigliaccheria imperanti, sulla scorta gloriosa delle gesta degli antichi. Il poeta si augurava che, assistendo alle imprese di Didimi, le persone potessero essere risvegliate e ricondotte sulla strada del vero valore civile. La lirica infatti ha una struttura ad anello: si apre con un’invocazione, al “garzon bennato”, e si chiude con un’invocazione, “buon garzone”. Forse questo appello traduce un inconscio desiderio di identificazione di Leopardi con il suo eroe; del resto l’unica virtù che li accomunava, allora, era la giovinezza; ma noi sappiamo che erano entrambi destinati a grandi imprese.
L’appello accorato di Leopardi infatti si sarebbe esaudito: Carlo Didimi sarebbe divenuto un campione leggendario e anche un patriota degno di tutti gli onori, il suo nome sarebbe davvero sopravvissuto alla fiumana del tempo.
Quanto a Leopardi, la sua immortalità non si discute.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “A un vincitore nel pallone”: la poesia di Leopardi per Carlo Didimi
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