Ada Gigli signorina, felicemente infelice
- Autore: Patrizia Ciribè
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2015
Un linguaggio desueto, un ambiente insolito, un personaggio originale costruito con sapienza dall’autrice caratterizzano il romanzo Ada Gigli signorina, felicemente infelice (Arduino Sacco editore, 2015). Patrizia Ciribè si misura con un romanzo la cui scrittura, molto attenta e meditata, sembra provenire da un altro tempo, un altro contesto storico, una dimensione atemporale nella quale la signorina Ada Gigli, professoressa di lettere alle medie, vive sola con un gatto dal nome imprevedibile, Marlon (come Brando), nel vecchio appartamento di famiglia, in un paese ligure di cui la voce narrante, che interviene spesso nel discorso, non dà cenni precisi per l’identificazione.
La signorina in questione è una cinquantenne solitaria, abitudinaria, tradizionale nelle abitudini, nel modo di vestire e di atteggiarsi, burbera se non scortese nei rapporti, pochissimi, con altri. Gli unici suoi riferimenti sembrano essere il bidello della scuola e sua moglie, i commercianti del posto, gli stessi di sempre, e una vicina di casa, Marta Minetti, grossa ed ordinaria, quanto la signorina Ada è sottile, sobria di gesti e di parole. La donna funge da protettrice di Ada, che vede troppo sola e troppo nevrotica: Marta, maligna, maldicente, mediocre, ha contagiato l’amica con le sue chiacchiere, sparlando del nuovo vicino, Pietro Maltese, che sarebbe ai suoi occhi un personaggio da cui guardarsi (riceve di sera giovani donne).
Vedremo presto che Pietro, vedovo dell’amatissima moglie Lara, accoglie nei fine settimana la figlia Matilde che studia a Milano e riesce pian piano ad entrare in sintonia con la solitaria e stravagante signorina Gigli, con la quale comincia ad intessere una delicata relazione fatta di brevi incontri e di scambi di riflessioni. Arriva anche Carlo Valli, un alunno di Ada con seri problemi familiari che la prof, tutta chiusa nei suoi rigidi principi e nelle sue convinzioni granitiche neppure intuisce. Un pranzo improvvisato per il compleanno di Ada, con Pietro e il ragazzino undicenne, finisce per essere l’inizio di una nuova esistenza per la difficile ed anaffettiva signorina Gigli. Cosa si cela dietro i suoi inspiegabili ripetuti svenimenti? Cosa sa di lei l’amica, ormai nemica Marta, che ingelosita dalla perdita di potere psicologico sulla fragile personalità di Ada, contribuisce ad un grave collasso che svelerà una reale malattia che cova dietro la sua solo apparente buona salute?
La narratrice approfondisce comportamenti, pieghe psicologiche, piccole manie, aspirazioni dei vari personaggi, tutti soli, tutti in difficoltà, tutti in cerca di appoggio per ristabilire un equilibrio smarrito per gli accidenti della vita.
La signorina Gigli è inconsapevole delle sue nevrosi e dunque incapace di affrontarle: sarà solo l’intervento nella storia di due uomini, Pietro ed il ritrovato cugino Edoardo, a dare lentamente alla donna consapevolezza dei traumi subiti nell’infanzia, volontà di non continuare l’opera di rimozione del principio di realtà che stavano per esserle fatali.
Ada somiglia ad un personaggio gozzaniano, la signorina Felicita, anche lei sola, anche lei compagna fedele di un gatto, anche lei ingenua e priva di apparente femminilità, volutamente occultata da una traumatica condizione familiare castrante: come in Felicita manca l’accento per divenire felicità, così nel titolo del romanzo d’esordio di Patrizia Ciribé il titolo, signorina felicemente infelice, ci racconta molto di donne solitarie, dal tratto ancora legato ad una concezione familiare e sentimentale legata ad un secolo ormai trascorso, anche se la storia è ambientata nella parte più evoluta dell’Italia contemporanea: la mamma del bambino Carlo, jeans, coda di cavallo, scarpe da ginnastica e marito abbandonato, la giovane Matilde, studentessa a Milano che vive da pendolare, sembrano vivere in un contesto da cui Ada si è rigorosamente tenuta fuori, come se fosse rimasta prigioniera di un tempo astorico, prigioniera di manie, ritmi di vita, gesti, pregiudizi dai quali nulla sembrerebbe poterla scalfire.
La parte che meno mi è piaciuta del romanzo è lo spazio eccessivo dato a descrizioni ridondanti di aggettivi, che rischiano di appesantire la narrazione, come anche a lunghe digressioni moraleggianti che appaiono francamente superflue:
“Credo che non vi sia valore più grande della fiducia nei propri affetti. Anche questo, come altri, è un sentimento spesso nominato impropriamente, riferendosi a delle banalità. Il malcostume derivante dall’espressione semplicistica di concetti che, al contrario, hanno un alto valore intrinseco, ne scaturisce l’uso pretestuoso in merito a questioni irrilevanti”
Preferisco la scrittrice quando racconta con maggior leggerezza i suoi ben costruiti personaggi, quando ci porta fin dentro i cassetti odorosi di lavanda della protagonista, quando ci fa sentire il profumo della sua torta di mele, quando ci racconta i suoi rapporti con gli alunni, che la guardano attoniti, incapaci anche di odiarla, tanto è lontana da loro la sua stravagante personalità, quando ne corregge i compiti, stupita dalla loro disarmante superficialità:
“Con la penna rossa, e una smorfia di diniego sul viso, poneva le sue rimostranze che quasi mai erano benevole, ma piuttosto pregne di insoddisfazione, per quei troppi errori che sembravano urlare l’indifferenza dei ragazzi.”
Un lessico antico, desueto, ricercato, fatto di parole e di espressioni di cui si è quasi perso l’uso quotidiano, caratterizzano molte pagine di questo romanzo: diniego, compostezza, concezione avanguardistica del mondo, denigrazione, barche che ancheggiavano, la vita s’imbizzarrisce...
Angosce che riemergono, rapporti dimenticati, ferite non sanate, ma anche una speranza che ci sia un futuro, quieto, rassicurante, fatto di “buone cose di non pessimo gusto”, anche per la nostra antiquata e infelice signorina Gigli.
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