Arpeggi per alpeggi di Alexandre Vialatte

Si sa che l’umorismo non è lo stesso neppure in Paesi geograficamente e culturalmente vicini fra di loro. Se quello italiano è scanzonato, quello inglese è notoriamente nascosto fra i denti, incline a freddure che non strappano più di un dignitoso sorriso. Quello francese, invece, è sottile, leggero, mascherato da discorso perfettamente logico e serio, ma non per questo meno pungente: basta esplorare la produzione cinematografica d’Oltralpe per rendersene conto. Un modo particolare di guardare la vita di ogni giorno, sottolineandone le piccole assurdità con il sorriso sulle labbra.

Et voilà, ecco spiegato che cosa sono le Cronache dalla Montagna di Alexandre Vialatte, che la casa editrice Prehistorica ha pubblicato in una deliziosa collana di sei titoli, tra cui quest’ultimo Arpeggi per alpeggi nella traduzione di Lamberto Santuccio.

Dal 1952 al 1971 Vialatte, aspirante romanziere di successo “prestato” al giornalismo per esigenze economiche, pubblicò più di novecento cronache sul quotidiano “La Montagne”, una alla settimana.
Come spesso succede, la necessità pratica rivelò una parte di lui che, probabilmente, non avrebbe mai pensato di esplorare, regalando ai contemporanei e ai posteri una lunga serie di deliziosi quadretti che raccontano una Francia antica ma sempre attuale, guardata con l’occhio indolente del flâneur e con il sorriso indulgente di chi prende la vita per quello che è, canzonando con allegria le magagne del mondo.
Viene in mente, per certi versi, un garbato scrittore e giornalista nostrano come il compianto Luca Goldoni, ma con alcune fondamentali differenze: innanzitutto, la maggiore incisività delle cronache goldoniane, sempre attraversate da un sottile filo di nervoso fastidio e dalla consapevolezza che, con un poco di impegno da parte di tutti, molte cose potrebbero essere cambiate; in secondo luogo, il fatto che Vialatte molto raramente parla in prima persona o racconta fatti accaduti direttamente a lui. Preferisce pescare fra le notizie più o meno importanti, parlare di letture interessanti, di discorsi generali che gli vengono suggeriti da qualche accadimento casuale; meno spesso parte, come faceva Goldoni, da un’esperienza vissuta in prima persona, il che non fa che accentuare quella sensazione di ovattato, come un osservatore esterno che parla fra il distaccato e il coinvolto, pacatamente.

Ogni cronaca è preceduta da una sorta di “riassunto” a brevi frasi, spesso parole isolate, che, più che introdurre lo spettatore a quello che leggerà, lo incuriosisce, restando volutamente sul vago e sull’ambiguo.
Si parla di grandi personaggi come Salvador Dalì o Anaïs Nin, non limitandosi a “recensire” il loro lavoro, ma sottolineando la loro parte più umana, tanto da far nascere coinvolgimento ed empatia nel lettore.
Ma si parla anche di ricordi, arature, castagne d’india, di come le cittadine siano superiori alle città, di umorismo nero, di uccelli inesistenti e perfino di come le poste abbiano smarrito un salame.
Ogni cronaca si conclude con la stessa frase:

“Ed è così che il Divino è grande.”

Una chiosa spirituale, che rimette ogni accadimento della vita alla grandezza della divinità, mettendo fatalisticamente tutto il mondo nelle mani dell’entità superiore: atteggiamento che ben si concilia con la posizione da osservatore esterno di Vialatte, cronista che non esprime chissà quale giudizio ma accetta di buon grado, anche se a volte con un velo di tristezza, con una punta di fastidio o con un sorriso ironico, tutto quello che succede intorno a lui.

I lettori che volessero prolungare il piacere di questa lettura hanno, come già detto, a disposizione una collana di sei volumi, di cui questo è soltanto il quinto: libricini svelti e scorrevoli, poco ingombranti e leggeri anche da portare con sé in qualunque situazione. Ottimi lunghi viaggi o lunghe attese durante le quali ci si voglia dedicare al piacere del sorriso.