Barbara
- Autore: Paola Capriolo
- Categoria: Narrativa Italiana
In un tempo e in un luogo imprecisati l’ultimo discendente di una nobile famiglia sta raccontando a un ospite le circostanze che ne hanno determinato la rovina. Tutto comincia dal fidanzamento impostogli dal padre con la bella figlia di un barone. Si chiama Barbara e dentro di sé nutre qualcosa “che trascendeva ogni spiegazione, qualcosa di cieco, di selvaggio”. Una donna dalla natura algida che fatta salva la diffidenza iniziale, attrae il cavaliere proprio in virtù del suo mistero interiore. Questo - in sintesi estrema - il contenuto affiorante di Barbara (Bompiani), settimo romanzo di Paola Capriolo, speso sul crinale ambivalente dell’attrazione/repulsione e della doppiezza sentimentale.
Inquadrata in altro modo la caprioliana “galleria di ritratti” di donna-demone - inaugurata da Carmen in Il nocchiero, proseguita con La spettatrice e con Tosca in Vissi d’amore - con Barbara si correda di una facies ulteriore e ancora più inquietante. Barbara è infatti un essere luciferino, lo è segnatamente. Una donna impassibile, lontana, incarnante la perfidia. Il male per il male. E d’altro canto, forse, lo strumento di un destino insondabile. Sulla scorta di questi primi connotati Barbara già si impone come romanzo sul perturbante. La più serena parentesi di Con i miei mille occhi (1997) è ormai alle spalle. In Barbara l’amore si riappropria infatti dell’accezione catalizzante (e dannante) tipica dello specifico caprioliano.
Ma i primi romanzi di Paola Caprìolo si prestano a chiavi di lettura binarie. Lasciano aperti spiragli di fuga che dal metafisico, per esempio, riconducono a coordinate psicoanalitiche e viceversa. Qui la vicenda si segnala come volutamente borderline, incessantemente sospesa fra caso e necessità e da qualsiasi ottica la si affronti, la Donna-Circe si impone come motore assoluto del romanzo.
La manifesta freddezza che Barbara rivela nei confronti del cavaliere è forse retaggio di una vendetta, le cui radici risalgono al lignaggio dei due promessi sposi? O discende piuttosto da crudele consapevolezza? La spietata cognizione del gatto che gioca col topo prima della zampata fatale. Nel futuro del giovane era, inoltre, decisa la rovina? O è stata l’ossessione per Barbara a decretarne l’avvento?
…Una volta, vedete, era lo stemma di una famiglia ricca e potente, il cui dominio si estendeva su vaste terre, su numerosi borghi e villaggi. Se tutto ciò è andato distrutto la colpa è solo mia, ammesso che sia lecito parlare di colpa per azioni che compiamo come costretti, senza la possibilità di scegliere. Io ricordo esattamente quale fu il giorno, quale fu l’istante in cui smisi di poter scegliere, sono in grado di determinarlo con assoluta precisione, anche se allora, come è naturale, non me ne resi conto, o almeno, non tanto chiaramente quanto me ne rendo conto adesso. Molti credono che il destino debba annunciarsi con squilli di tromba e rulli di tamburo: spesso invece si avvicina a noi in punta di piedi, quasi di nascosto, e lo riconosciamo soltanto quando siamo ormai in sua balia...
L’universo letterario di Paola Capriolo è, sin qui, edificato come un universo-gabbia. Un microcosmo temporalmente sfrangiato, sospeso al filo doppio dell’assoluto e del relativo. Al suo interno i personaggi si muovono come sotto vuoto spinto, soggiacendo allo spaesamento interiore, al disegno demiurgico di una Causa Prima al di là della quale nulla può esistere, o quanto meno mantenere un senso proprio. Barbara, nel romanzo, è l’emblema di questo assoluto indifferente: in quanto (s)oggetto esclusivo delle attenzioni del giovane ne diventa la dinamica teleologica, la mania. La sua postura statuaria è rivelatrice dell’impassibilità d’animo e della propensione naturale al dominio e alla non-appartenenza.
…in effetti, nonostante l‘aspetto ordinario, vi era nei suoi modi una sorta di naturale signorilità che la, distingueva dagli altri membri della famiglia e che doveva renderle sgradevole la rozza bonomia del padre. Osservandoli insieme, mi parve di capire che questi provasse nei suoi confronti una vera e propria soggezione, e lei non faceva nulla per dissiparla, anzi, ne sembrava addirittura compiaciuta. Un simile atteggiamento era il segnale man di un ‘indole non aliena dalla crudeltà, eppure dinanzi a esso mi sentivo oscuramente costretto a una certa ammirazione (…) Era lontana come se una lastra di vetro la separasse da quanto la circondava. Tale contegno costituiva un vero e proprio enigma: non potevo dubitare che lei si rendesse conto dell‘importanza di quel momento, eppure mi guardava con un distacco offensivo, quasi fossi stato un contadino del padre, o una dama di compagnia, o un altro personaggio trascurabile cui non valesse la pena di dedicare particolare attenzione…
Ancora una volta dunque c’è un giardino e ancora una volta, in un romanzo di Paola Capriolo, il giardino è da assumersi come specchio. Come riflesso dell’indole di colui - o colei - che ne regola l’insieme (Un uomo di carattere). Non è un caso, per ciò, che dietro la simmetrica ordinarietà di alcuni aspetti, il disegno vegetale del palazzo di Barbara, riconduca a improvvisi impedimenti visuali, a inopinate prospettive bizzarre, in qualche modo rivelatrici dell’animus della protagonista. Della sua ambigua accezione di strega e sirena.
Barbara si presenta - ancora - come romanzo mise-en-abyme. Nel senso che racchiude diversi elementi-cardine della narrativa caprioliana: il caso, l’abisso, la donna demone, il giardino, e anche il pegno d’amore che Barbara regala al cavaliere: l’anello coi due serpenti intrecciati a simbolo di eterna inimicizia o di legame, che in Il nocchiero erano le spire del bracciale indossato dall’ectoplasmatica Carmen.
In traslato, proprio le effigi dei due serpenti, schematizzano il destino dei due protagonisti, avvinti nel gorgo di una spirale biunivoca di amore/odio. Attraverso l’incontro con Barbara, al cavaliere è stata offerta la mela avvelenata. Il Fato ha predisposto per lui la rovina, lo slittamento verso impreviste coordinate esistenziali. Sulla ruota di una sorte non benigna è uscito dunque il nome del giovane cavaliere e Barbara, di questa sorte, diventa l’agente, esigendo sin da subito il suo pegno d’amore: la restituzione di un anello, identico a quello donato al cavaliere, che un antico spasimante ha trattenuto con sé dalla rottura del fidanzamento.
Il compagno devoto si mette dunque in viaggio. Ancora non lo sa ma il destino lo attende in un villaggio remoto, palesato nelle sembianze di un amico che tempo e fortuna hanno condotto lontano.
Primo colpo di scena: è lui l’antico spasimante di Barbara. Il possessore dell’anello che la donna ora gli chiede come prova devozionale.
Stop frame: un rapido ma fondamentale passo indietro. Qualche giorno prima dell’incontro con l’amico, al cavaliere succede di imbattersi in un eremita. Come una tappa nella teoria dei tarocchi - la donna, il saggio, il rivale -, il cavaliere lo incontra passando per una selva boschiva, e non riconosce in lui l’epifania della sua sorte.
Dietro fattezze ruvide, cagionate dalla privazione, l’eremita lascia infatti intuire una ricercatezza di modi e di linguaggio, retaggi di una diversa condizione, che scelte o sfortuna gli hanno sottratto.
“Chiunque io fossi un tempo, non lo sono più”
“E’ questa la tua sicurezza? Spogliarsi della propria vita, non essere più se stessi?”
“Forse un giorno capirai anche tu che è l’unica possibile. Solo chi è come me può essere sicuro di tutto, perché a tutto ha rinunciato”
In questo lapidano scambio di battute risiede, forse, un’ulteriore chiave di volta del romanzo: quella che individua nell’abdicazione ontologica il paradigma di un sentire - e di un vivere - ulteriori.
Torniamo ora all’incontro con l’amico: il cavaliere vi giunge immemore della testimonianza del vecchio. Troppo pochi gli anni, troppa la fierezza derivante dal suo lignaggio, troppo pressante il desiderio di compiacere Barbara perché egli possa, sul momento, trarre da quell’incontro moniti pedagogici. Poche pagine dopo, l’amico di un tempo lo avvisa della natura infida della promessa sposa, e il dialogo degenera in un duello mortale.
Ciò che forse era scritto si compie inevitabilmente. Con la lama della spada, insieme con il fidato compagno, il cavaliere infilza mortalmente la sua vita di un tempo: da riverito signorotto di un vasto territorio feudale, d’improvviso diventa fuggiasco. Braccato dalla brama vendicatrice di un potente Vescovo Principe, accompagnato dell’ostilità e del disprezzo dei propri sudditi. E finanche il Barone (il padre di Barbara) adesso lo scaccia, annunciandogli che la figlia è frattanto andata sposa.
Rientrato a palazzo, l’unico servo rimastogli fedele gli partecipa anche della morte del padre, e del fatto che le guardie vescovili lo cercano per trarlo in arresto. Il vaso è colmo: la giovane vita del cavaliere vira - costretta - verso rotte perigliose: al soldo di un soldato di ventura, saranno per lui anni di fuga e battaglia, che gli restituiranno parte della perduta agiatezza.
Si è già detto come all’interno dello specifico caprioliano, l’amore declini spesso in perdizione. Si insinua e si spande come un veleno dentro l’animo dei protagonisti, logorandone i residui autoconservativi. L’amore del cavaliere per Barbara risulta essere, peraltro, la più dolce e corrosiva delle tossine. Una ragione di vita che tempo e distanza non riusciranno mai ad affievolire.
E’ a mio avviso importante tenere a mente come Barbara possa essere letta come emissaria del Destino che vuole/deve tendere un tranello all’ardimentoso nobiluomo. Barbara è astuta. Barbara è l’ombra della cavaliere. Barbara è l’angelo e la persecutrice. Il compimento interiore e la disgregazione insieme. Per farla breve, le cose vanno più o meno in questo modo: saputo dell’immatura vedovanza della donna, con l’esclusivo pretesto di renderle l’anello, il cavaliere giunge nottetempo al suo cospetto, cadendo nella trappola che la donna ha predisposto per lui.
Come lame divaricate di una stessa forbice cui è precluso di ricondursi ad unità, il cavaliere e la donna, con ambizioni diverse (congiuntive l’uno, oppositive l’altra), sono entrambi schiavi del fulcro che ne intreccia i destini. Il cavaliere cade in un tranello e viene catturato, Barbara molto probabilmente si compiace del fatto.
Così il cavaliere evoca nel romanzo i lunghi anni abulici che seguono:
Non ero ancora vecchio, ma sentivo che presto il tempo di tutto questo sarebbe passato irrevocabilmente. Sebbene nella mia immutabile prigionia non tenessi più il conto degli anni, ne percepivo lo scorrere rapido, impietoso: certo gli antichi compagni di svaghi, tutti salvo uno, erano ormai maturi padri di famiglia, e le snelle contadine che una volta avevo stretto fra le braccia dovevano essere già ingrossate e sfiorite. La ruota della vita continuava a girare lasciandomi indietro, proprio come avevo lasciato indietro quel corpo da me abbandonato sull‘erba con una ferita nel petto; la mia generazione percorreva l’orbita fissata e si avviava placidamente verso il tramonto. Presto sarei giunto anch‘io a quella meta, senza mai aver posato il piede sui molteplici gradini che vi conducevano; non sarei mai diventato un vecchio, ma soltanto un ragazzo decrepito, ignaro di tutto ciò che esiste fra la giovinezza e la tomba.
In questo stato di perenne straniamento gli anni volano via come fogli di carta sferzati dal vento. Il cavaliere ottiene di scontare la condanna nella dimora paterna che lo aveva ospitato giovane e gravido di belle speranze. Dato che non ha smesso ancora di misurarsi col destino, da lì fuggirà una notte, eludendo la blanda sorveglianza delle guardie, giungendo nella capitale con la segreta speranza di ottenere clemenza dal Vescovo Principe.
La capitale è una città metaforicamente calviniana (Le città invisibili). Un pianeta duale - mobile e immobile -, tagliato in due dalle rive di un fiume che lo trapassa come un confine. Sulla riva destra sorge il mondo reale delle locande, delle dimore, delle chiese, degli uomini, delle donne, dei mezzi di trasporto; sulla sinistra si trova un mondo fittizio, taciturno, immobile, del tutto speculare al primo, abitato dalla presenza immota delle sculture che ne adornano le strade. La sponda sinistra della capitale è il regno della favorita del Vescovo Principe, la donna misteriosa sulla quale tanto si favoleggia, fra bisbigli timorosi, sulla riva opposta.
Come già in La spettatrice e in Un uomo di carattere, anche in Barbara, Paola Capriolo ricorre all’espediente speculare per le valenze di doppio a cui rimanda: ciò che è vitale è contrapposto all’immobile. Il vivente al luogo abitato dalle creature di ghiaccio, il doppio regno dove tutto è silente, disumano.
…Appresi dunque che la città .fino a pochi anni prima occupava soltanto la riva destra del fiume. Poi il Vescovo Principe aveva fatto costruire sulla riva sinistra un ricco palazzo dove alloggiare la sua favorita, e la campagna all‘intorno era stata trasformata in un parco cinto di alte mura per consentirle di passeggiare indisturbata. Ma tutto ciò non pareva sufficiente alla favorita: quella donna ambiziosa volle anche una chiesa che gareggiasse in splendore con la cattedrale, volle piazze, fontane, monumenti, in breve, volle che ogni bellezza dell‘altra sponda trovasse sulla sua una degna rivale, e ciò che voleva ottenne, perché aveva un potere assolto sul cuore del sovrano
Volendo insistere con i richiami alle figure caprioliane dei romanzi precedenti, la favorita del Vescovo Principe potrebbe assumersi come spietato alter ego della Carmen del Nocchiero. Nessuno può dirsi immune al suo fascino glaciale. La donna misteriosa ha una natura distante e un anello con due serpenti intrecciati in una lotta senza fine. Ha un nome, e quel nome (udite! udite!) ancora una volta è Barbara. La donna inaccessibile cui, suo malgrado (?) il cavaliere ha immolato la vita.
Il finale di partita spetta sempre alla morte. Sul bilico estremo del precipizio Eros e Thanatos (Barbara e il Cavaliere) si fronteggiano per l’ultima volta: ci si aspetta che l’incontro sfocerà nel sangue (vendetta per vendetta), invece, quel decisivo faccia a faccia, non farà altro che rimarcare gli opposti atteggiamenti - succube e artefice - impersonati dall’uomo e dalla donna.
Barbara stava addossata al davanzale. “Vattene “, ripetè a bassa voce. “Se non mi rendi l‘anello, Barbara, ti ucciderò.”
Mi guardò dritto negli occhi e piegò le labbra in un sorriso, mentre sul suo volto lo sgomento cedeva il posto a un‘espressione canzonatoria. Si issò sul davanzale...Avanzai ancora di un passo, poi mi fermai. Restammo immobili, senza distogliere lo sguardo l’uno dall‘altra. La sua figura risaltava sul cielo notturno, nitida, bianca, infinitamente remota; sulla mano sinistra i due serpenti d’oro intrecciavano un nodo indissolubile. Lasciai cadere il pugnale e uscii in fretta dalla stanza.
È in questo modo che il nobiluomo vanifica l’ultima sua chance di affrancamento. Rinunciando a sopprimere Barbara come, in fondo, ha rinunciato ormai alla sua vita.
…non dubitavo che Barbara sopravvivesse nel bianco palazzo della riva sinistra del fiume, o in qualche luogo altrettanto remoto e incantato: la sapevo immortale, e so che seguiterà ad esserlo finché dureranno in me la memoria e il respiro.
Barbara
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