Il doppio regno
- Autore: Paola Capriolo
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Bompiani
Non so se suona troppo forte ma lo dico lo stesso: “ll doppio regno” di Paola Capriolo (Bompiani, 1991) ha segnato la mia vita di lettore come il segno della croce quella di chi crede. Beh, più o meno: sono stato letteralmente stregato da “Il doppio regno”.
Si tratta di un romanzo di genere fantastico, di quelli scuri scuri però, claustrofobico. Un romanzo rilkeiano (sin dal titolo), ma tra le righe c’è n’è abbastanza per rimandare anche a certe atmosfere plumbee di Buzzati, e alla “Montagna incantata” di Thomas Mann. Il terzo romanzo di Paola Capriolo - segue la raccolta di racconti “La grande Eulalia” e “Il nocchiero” -, parla di stasi - esistenziali e temporali - a una spanna dall’afasia. Ci passa (?) dentro un tempo rappreso, arreso, immobile. Un non-tempo riflesso dello iato che taglia, a sua volta, immanenza e trascendenza. Ad ogni modo, le cose sono andate così: ho letto “Il doppio regno” in due giorni, d’un fiato. Sono precipitato nel suo abisso e non ne sono uscito più. Nemmeno quando ho finito di leggerlo. Nel senso che non posso fare a meno di ritornare spesso a questo romanzo.
L’incipit è surreale: in un’alba livida d’autunno, mentre passeggia sul litorale di un‘anonima cittadina, una donna vede montare dal mare un’onda gigantesca. Fugge, intanto che il paesaggio intorno viene inghiottito per gradi. Scampata (?) alla morte, trova rifugio all’interno di un edificio labirintico: uno strano albergo senza insegne né clienti: da quel luogo – inquietante e protettivo al contempo – non riuscirà più a venire fuori. Le stazioni del suo progressivo soggiacere alla quiete afasica dell’albergo, si alternano nel romanzo ai barlumi di ricordi risalenti a un tempo-prima, brandelli di un passato nebuloso. Un passato dove l’esperienza personale della donna risulta commista a possibili proiezioni inconsce e/o onirismi.
La quiete vagamente funerea dell’edificio in cui ogni elemento - architettura, oggetti, gli stessi camerieri - obbedisce a un‘immutabile liturgia, e d’altro canto la minacciosa imprevedibilità della vita da cui continuano a giungerle lontani richiami -, si pongono agli occhi della protagonista come i poli antitetici di un “doppio regno” mortifero e salvifico al tempo stesso. Un confine duale delimitante il suo itinerario interiore, che da una sorta di sofferta iniziazione giunge sino al collasso e/o alla rivelazione.
Un piccolo passo indietro, dentro metafora: l’onda è dunque il cominciamento. Il grado zero, la fine del tempo conosciuto e l’avvento di un tempo nuovo. L’onda cancella (monda?) il passato della donna (la sua memoria affettiva, i suoi ricordi) spingendola verso il presente di placida sonnolenza, di beatitudine artificiale, dell’albergo. Qualcosa di inquietante ma anche di molto seducente, al contermpo. L’onda è il pre-testo ontologico che la donna, in qualche modo, sta aspettando per lasciarsi alle spalle un vissuto ingombrante. Un passato oscuro (forse un bimbo annegato nel corso di una gita in barca, della cui morte si sente responsabile? Forse un uomo tradito e successivamente abbandonato?). L’onda è il primo cardine di lettura di un romanzo, sin dal titolo costruito intorno alla doppiezza: prima/dopo, passato/presente, oblio/memoria, tempo/non-tempo, libertà/prigionia, interno/esterno. Come il Tenente Drogo de “Il deserto dei tartari”, l’eroina de “Il doppio regno” finirà con l’arrendersi alla condizione di stallo (di scacco) esistenziale di cui l’albergo (il secondo cardine simbolico del romanzo) è artefice e motore immobile. Un edificio labirintico, geometricamente sconnesso, entro cui - di conseguenza - ci si perde per ritrovarsi di continuo.
Quella proposta dall’albergo caprioliano è infatti una sorta di dimensione sospesa, infinita, ultramondana. Un microcosmo compiuto in sé, al cui interno i giornali non riportano date (giornali “quasi di oggi” sono le sole letture concesse nell’edificio); le finestre appaiono cieche
“mi accorsi però che neppure lì vi erano finestre vere e proprie, ma soltanto un rettangolo di vetro smerigliata, piccola e irraggiungibile”
mancano gli orologi, e il solo retaggio del tempo esterno (l’orologio della donna) inoltre è andato rotto durante la fuga.
È all’interno di questo dedalo simbolico che la donna subisce il senso di straniamento che di solito segue la deprivazione sensoriale. Secondo una possibile lettura psicanalitica, proprio l’insistita dilatazione temporale che detta il ritmo del romanzo, può essere tradotta come segno dispercettivo per antonomasia, preludio a una scissione interiore vissuta dalla donna con emozioni ambivalenti di fascinazione e/o inquietudine, allegrezza e/o afasia.
Le possibili luci interpretative de “Il doppio regno” non sono categoriche. Al contrario, non possono che porsi, a loro volta, come molteplici, fratte, parimenti opposte e speculari. Anche in questa parcellizzazione di traduzioni risiede il fascino del romanzo di Paola Capriolo, che inquieta e - sottotesto - fa pensare. Vi consiglio di recuperarlo e di sbirciarci tra le pagine senza ulteriori se e senza ma. Prendetemi alla lettera: da “Il doppio regno” non ci si libera e non si viene fuori facilmente.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il doppio regno
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