Con i miei mille occhi
- Autore: Paola Capriolo
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Bompiani
L’io-narrante del romanzo è una Foresta. La Foresta dalla “fitta ombra” e dai “recessi eternamente fecondi” che è stata testimone dell’amore non corrisposto della ninfa Eco per il giovane Narciso. È trascorso del tempo da allora: la ninfa - consumata dall‘infelice passione e ridotta a pura voce e alito di vento - ci ricasca con un pittore solitario, del tutto somigliante a Narciso e come Narciso predisposto al richiamo delle acque-specchio che ne causarono la morte. Con i miei mille occhi Paola Capriolo (Bompiani 1997) scrive dunque un romanzo fiabesco, dal sostrato mitologico. Se in Vissi d’amore era la Tosca di Puccini, qui è la leggenda di Eco e Narciso a diventare spunto per una riflessione sull’amore e le sue implicazioni ontologiche.
Il procedere del racconto è quasi onirico: un lontano viaggio all’interno di una dimensione-pastello, placida e rassicurante. In Con i miei mille occhi Paola Capriolo rinuncia infatti all’impalcatura claustrofobica che ne ha sino ad ora sorretto i romanzi, per aprirsi a una narrazione distesa, a tratti ironica e pungente. Qui Bene e Male si assumono piuttosto come motori pulsionali coagenti: rintracciabili nell’io-diviso del giovane pittore (espressione di una psiche combattuta fra la superomistica affermazione di sé e un abbandono catartico all’essenzialità delle cose), come nell’animo della ninfa che sulla scorta del puro sentimento per il giovane riuscirà a disfarsi delle ombre, del maleficio, e riacquisire infine il proprio corpo.
La Foresta dai "mille occhi", testimone - forse persino artefice - del Tempo, è dal canto suo un dio-motore immobile, osservatrice non-agente del divenire delle cose. Nei secoli dei secoli ha visto viandanti timorosi attraversargli le viscere frondose, altri meno pavidi accamparsi per qualche tempo e poi sparire, altri ancora trarre alimento dal suo animus arbustivo così che possano beneficiarne lo spirito e il talento artistici.
Fra questi ultimi viandanti c’è il giovane pittore, almeno finché non cede all’attrazione per il suo stesso volto, riflesso nella fonte. La storia è ciclica, e giunti a questo punto, la storia tragica del giovane Narciso sembrerebbe ripetersi con poche varianti.
La sfrenata alacrità del pittore, della quale sinora mi rallegravo considerandola un segno di salute, mi svela adesso la propria natura morbosa. Non la gioia di creare, ma una forza più oscura e incoercibile gli guida la mano giorno dopo giorno, senza concedergli tregua. Invisibile, appostata dietro le sue spalle, Eco ne segue ogni singola pennellata. Se all‘inizio il pittore, impegnato com‘era a elaborare lo sfondo, aveva trascurato la figura in primo piano lasciandola allo stato di abbozzo, ora essa comincia a precisarsi: non è una ninfa, né un fauno, né un altro dei tanti personaggi mitologici di cui l’artista amava popolare le sue radure dipinte, ma un uomo... I tratti del viso non sono ancora ben delineati, tuttavia non mi è dato di illudermi in proposito. Anche Eco attende di vederli emergere dalla materia indistinta che copre la tela con l’assenza di speranza con cui si attende l‘abbattersi ineluttabile di una sciagura, e nessuna di noi due si stupisce quando infine può riconoscere in quel volto dipinto il volto del pittore. (pagg. 38-39)
Sotto questo aspetto, Con i miei mille occhi esplica la costante caprioliana della possessione attraverso un rituale metamorfico in cui l’artefice dell’atto creativo (il pittore) si reifica a oggetto attraverso la compulsiva (ed esclusiva) rappresentazione di se stesso. A pagina 60, la Foresta spia in questo modo il transfert del neo-Narciso:
Ormai spio l’interno della capanna attraverso tanti sguardi differenti, che mi sembra di essere quel mostro dai cento occhi al quale un tempo, in un‘altra delle mie radure era affidata la custodia della ragazza tramutata in giovenca. Come Argo, anch‘io non conosco riposo: quando la falena si addormenta stordita dal chiarore del giorno, ecco uno sciame di moscerini appostarsi davanti alla porta in obbedienza ai miei comandi. Inoltre una talpa, animale tutt‘altro che cieco nonostante l’opinione contraria dei mortali, ha provveduto a scavare un lungo cunicolo che sbocca proprio al centro del pavimento...
L’Amore è il primo degli espedienti fiabeschi per condurre l’intreccio verso il lieto fine. Con i miei mille occhi segue la regola, assegnando al sentimento di Eco per il pittore la valenza salvifica del riscatto. Nella condizione incorporea in cui si trova, la ninfa lo corteggia, richiamandone l’attenzione: si fa aria appannando i cristalli della stanza, diventa refolo di vento fino a sospingerne a terra i drappi.
È sulla spinta di questi segnali che nel pittore la curiosità viene a sovrapporsi all’iniziale sgomento, e il romanzo giunge al suo punto nodale.
Ancora qualche giorno orsono, dinanzi a un evento del genere, avrebbe pensato a uno spiffero e sarebbe andato alla porta per chiuderla meglio; ma adesso la lunga convivenza con l‘inesplicabile deve avergli affinato l’intelletto e persino i sensi, poiché sembra rendersi conto immediatamente di non essere più solo nella stanza. Per fortuna la curiosità prevale sulla paura: il giovane non fugge e neppure fa nulla per intimorire o scacciare quella creatura invisibile. Si risiede e rimane immobile, lasciando all‘ospite ogni ulteriore iniziativa. Per un po’ anche Eco mantiene un‘immobilità assoluta, vi si nasconde come in un rifugio; ora però, rassicurata dal contegno pacifico del giovane, ricomincia cautamente a man la propria presenza. Con un soffio gli sfiora le mani, poi le guance. È un segno d’amicizia, ed egli sembra accoglierlo come tale, pur non potendo reprimere un brivido quando avverte il contatto inaspettato. Tende una mano per toccare a sua volta quella materia immateriale, quella sostanza, tuttavia non riesce a capire se davvero l’abbia toccata o se essa non si sia invece ritratta, spaventata dal suo gesto... (pagg. 68-69)
Attraverso i suoi mille occhi la Foresta osserva compiaciuta l’emergere dalla tela - e in parallelo dalla radura dove la ninfa riposa sotto l’aspetto di condensa - una fisionomia diversa dall’autoritratto ispirato dalla fonte, una delicata fisionomia femminile. Siamo ormai prossimi alla fine e per una volta in un romanzo di Paola Capriolo, l’amore diventa portatore di valenze redentrici piuttosto che destabilizzanti.
A lungo il pittore mantiene lo stesso silenzio, la stessa immobilità. Forse li manterrebbe per sempre, se a un tratto non scorgesse un‘ombra allungarsi sulla tela. Allora si volta, non di scatto ma adagio, con una sorta di cauta lentezza, e la vede a pochi passi da lui intenta a esaminare il quadro da sopra la sua spalla. Vede le labbra color carminio e gli occhi di un azzurro scuro e profondo, vede una bionda chioma vaporosa intorno ai lineamenti delicati e il velo fine e impalpabile che copre la nudità del corpo. Torna a girarsi verso la figura dipinta, poi guarda di nuovo l’altra figura che le corrisponde in modo così pieno come a un oggetto corrisponde la sua immagine riflessa in uno specchio e tuttavia, diversamente dalle immagini negli specchio è fatta di carne e ossa. Anch‘io, devo confessarlo, mi sento invadere da un incredula felicità notando che nei punti dove la ninfa ha posato il piede l’erba appare leggermente schiacciata e serba ben riconoscibile l’orina dei passi. E quando il pittore con gesto incerto tende le mani verso di lei, so che al suo gesto non risponderà un soffio ma la salda, corporea stretta di altre mani. (pagg. 84-85)
Andrebbe scritto a questo punto che tutti vivranno felici e contenti. Foresta-mentore compresa.
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