Cannibal Ballad. Il cinema selvaggio di Ruggero Deodato
- Autore: Gordiano Lupi, Davide Magnisi
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2019
“Il cannibalismo è metafora di qualcosa?”
“No, è la volontà di mostrare un mondo fermo all’età della pietra”.
“Qual era il pubblico di questo film? O quale lei pensava che fosse?”
“E’ un problema che non mi sono posto. Di certo all’epoca facevo vedere qualcosa di completamente nuovo”.
Così Ruggero Deodato e Davide Magnisi nella lunga conversazione sui film avventuroso-cannibalici del primo. Lo stralcio di intervista figura a pagina 278 del tomo curato da Gordiano Lupi per la Cineteca di Caino delle Edizioni Il foglio (“Cannibal Ballad. Il cinema selvaggio di Ruggero Deodato”, 2019). Il lungometraggio a cui regista e critico si riferiscono è maledetto: si intitola Cannibal Holocaust, risale al 1980 e presenta un cospicuo campionario di efferatezze per stomaci forti. Un film umiliato e offeso, mutilato, sequestrato, vituperato, e di contro assunto allo statuto di cult proprio in virtù della sua vis dirompente.
All’alba degli anni Ottanta e della società del corpo edulcorato, Cannibal Holocaust rivela del corpo (mutilato, profanato) l’invedibile, sferrando un colpo basso all’edonismo imperante, nel modo più inverecondo e oltraggioso che vi viene da pensare: la natura dell’uomo è bestiale, Cannibal Holocaust sta lì apposta per provarlo.
Come rimarca Gordiano Lupi nel suo articolato excursus sulla filmografia deodatiana:
Cannibal Holocaust è un film disperato e lirico, indimenticabile nella sua incredibile rappresentazione della violenza. Un’opera di culto nell’exploitation italiana che non può lasciare indifferenti. I fotogrammi finali restano scolpiti nella memoria dello spettatore. Raggiungendo lo scopo di sconvolgere e disturbare.
C’è da prenderlo in parola. Anche se Cannibal Holocaust ne costituisce l’ossatura portante, “Cannibal Ballad” estende il suo discorso all’intera produzione deodatiana (una produzione trasversale a diversi generi), attraverso dettagliati passaggi storico-filmici, saggi critici (“Natura, società e cannibalismo”, “Il corpo erotico del cinema di Deodato”, per esempio) e lunghe interviste a chi il regista - Monsieur Cannibal, stando alla sapida iconografia francese - l’ha conosciuto da vicino.
Epigoni, musicisti, autori e attori, che raccontano Deodato in luci e ombre, e senza nessun pelo sulla lingua. Come Francesca Ciardi – tra le attrici principali di Cannibal Holocaust - che alla domanda di Davide Magnisi:
“Cosa ha pensato quando ha visto per la prima volta il film finito?”
Risponde:
“Mah…sono rimasta orripilata. L’ho tolto dal mio curriculum, me ne vergognavo e non volevo parlare del fatto che avessi girato questo film. Lo consideravo orribile”
Il fatto è che quando si parla del cinema di Ruggero Deodato non si parla di cinema riconciliato e nemmeno di cinema riconciliante. Inviso dai cinefili e dalla critica più engangè (Gordiano Lupi rende l’idea riportando alcune tra le stroncature più feroci espresse dalla stampa dell’epoca), Ruggero Deodato appartiene al novero di cineasti-artigiani capaci comunque di incidere sulla storia del cinema popolare, ritagliandosi peraltro ampie attenzioni anche all’estero (succede ancora oggi?).
Ho visto Cannibal Holocaust in un cinemino all’aperto. Ero giovane: sgranocchiavo popcorn mentre sullo schermo i cannibali sgranocchiavano parti ben più appetibili degli attori e delle attrici (soprattutto attrici) impiegati nel film. Non battevo ciglio, in autunno avrei ripreso a frequentare i cinema d’assai senza sensi di colpa. Ero e sono per un approccio a-morale all’opera d’arte: un film non è buono o cattivo, un film è riuscito oppure no.
Dedicare quasi 500 pagine (con foto) al cinema di Deodato credo costituisca, se non altro, una coraggiosa quanto sacrosanta operazione di recupero filologico, di cui va reso merito a Gordiano Lupi e alla sua La cineteca di caino. Con buona pace dei puristi conserverò dunque "Cannibal ballad" di fianco ai libri che ho sul cinema di Ingmar Bergman e di Stanley Kubrick (per citarne due al disopra di ogni sospetto di cinema-bis) e anche in questo caso senza alcun senso di colpa.
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