
Giuseppe in Egitto
- Autore: Thomas Mann
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Straniera
Giuseppe in Egitto di Thomas Mann, il terzo della tetralogia Giuseppe e i fratelli, è intessuto intorno alla fascinosa figura biblica di Giuseppe, il sognatore. La sua vicissitudine spicca per i tratti epici e favolosi, che evocano personaggi leggendari dell’Antico Oriente, ma si distingue da questi per la relazione intima con Dio, propria di un popolo, Israele, interlocutore privilegiato di una rivelazione di salvezza che poi, in Cristo, nella Nuova Alleanza, si estenderà a tutta l’umanità.
Ciò che contraddistingue Giuseppe, e che diventa la chiave di volta del suo destino, sono la sua amabilità, la cortesia e la grazia con cui sa accattivarsi il favore della gente. Tuttavia, essa è un’erma bifronte, perché attrae la sventura, suscitando invidia (i fratelli) e brama di possesso (moglie di Potifar). La bellezza, infatti, è un’arma a doppio taglio: conquista e seduce irresistibilmente, fino a diventare preda di una passione incontrollabile. Quando infatti, abbagliati dai miraggi di ciò che si riflette sulla terra dello splendore del sole, ci si distoglie dal Bello assoluto che è Dio, invece della contemplazione estatica che sarebbe l’atteggiamento ideale, ci si getta avidamente sulle creature, fino a procurarne la morte, come la cronaca nera purtroppo insegna. Afferma S. Agostino in un celebre passo:
E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. [...] Mi tenevano lontano da te quelle creature, che, se non fossero in te, neppure esisterebbero.
È proprio questo dramma che il genio dello scrittore tedesco indaga con arguzia intellettuale e finezza psicologica. Ciò che il testo biblico condensa in pochi versetti, secondo il suo stile di incisiva essenzialità, l’autore lo dilata in un’ampia narrazione, compensando il “vero storico” con il “vero poetico”, secondo l’icastica definizione del Manzoni.
Inoltre, getta luce su un personaggio femminile rimasto nell’ombra e avvolto da un’aura nefasta: colei che viene definita nella Bibbia esclusivamente come “moglie di Potifar”, nonché icona dell’ignobile atto della calunnia verso il giusto Giuseppe, seguito a un altrettanto deplorevole attentato alla castità di lui. Mann riscatta questa figura demonizzata nell’immaginario popolare, restituendola alla sua umanità e dandole un nome e un volto: Mut-em-net (che etimologicamente allude alla maternità feconda). Inoltre ne narra la vicissitudine fin dall’infanzia, strappando al lettore uno sguardo d’indulgenza su questa creatura relegata nella sua solitudine di moglie “onoraria” del cortigiano del Faraone, la quale, sobillata dal maligno nano Dudu, comincia a guardare prima con curiosità, poi con interesse, quindi con crescente desiderio il giovane schiavo ebreo venduto dagli ismaeliti.
Con profonda introspezione viene descritto questo processo che, dalle iniziali resistenze, senso di vergogna e di umiliazione, sconfina poi nella devastazione della follia amorosa che, come un fiume impetuoso, non conosce argini, culminando nella sua famigerata impudenza. Lo scrittore non fa sconti neanche all’imprudenza del protagonista, nell’ostentare di godere del favore divino, così come del padre, in un caso - ciò che a suo tempo lo aveva reso inviso ai fratelli - e di Potifar nell’altro. La sua prodigalità nel mostrarsi eccessivamente grazioso, senza sottrarsi all’ambiguità della seduzione degli sguardi e delle parole, senza evitare le occasioni degli incontri, deve aver contribuito non poco ad alimentare la funesta passione.
L’ambiente egizio viene descritto con dovizia di particolari, nella sua lussureggiante galleria di idoli; Giuseppe assume i costumi del popolo che lo ospita, ma nell’intimo serba la “gelosia del Dio nascosto”, l’ossequio alla figura paterna e ai valori a cui l’ha tenacemente educato.
Il libro si chiude con Giuseppe che si ritrova metaforicamente, come all’inizio della sua storia, nella fossa, gettato in prigione, una discesa agli inferi che conoscerà nuovamente una resurrezione, grazie alla potenza di liberazione di quel Dio che egli, pur nella bufera della tentazione, fedele alla religione dei padri, non ha tradito. Il goel, invocato da Giobbe nella sua sventura, è Colui che riscatterà il figlio di Giacobbe dall’ingiustizia subita ricolmandolo di prosperità, che per l’ebreo del tempo è segno di benedizione divina che abbraccia l’esistenza terrena (per volgersi alla vita eterna occorrerà attendere le opere dell’epoca ellenistica quali Sapienza, Siracide, Maccabei).

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Giuseppe in Egitto
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