Caporetto
- Autore: Nicola Labanca
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2017
Ancora su Caporetto. Questa volta tocca al testo di uno storico molto autorevole, il prof. Nicola Labanca, cattedratico a Siena e presidente del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari. È un volume delle edizioni Il Mulino, “Caporetto. Storia e memoria di una disfatta”, pubblicato nella collana Biblioteca storica a ottobre 2017 (pp. 238, euro 19,00).
A cosa si deve tanta insistenza sulla madre di tutte le sconfitte italiane? Innanzitutto, il 24 ottobre è ricorso il centenario dell’offensiva austro tedesca che ruppe il fronte dell’Alto Isonzo, ma c’è anche da onorare ulteriormente il debito del nostro Paese nei confronti dei suoi soldati, mandati a morire negli assalti sconsiderati di quella guerra spietata e, per tutta riconoscenza, tacciati di viltà dai loro macellai, i generali, i veri responsabili del disastro.
Si possono fare tante considerazioni sulle cause della gravissima sconfitta militare e si può stare certi che Nicola Labanca le esamina tutte, ma dal momento che anche i più gravi disastri nascono spesso da errori di portata minore, sembra utile evidenziare un aspetto iniziale, che mise in netta difficoltà il nostro schieramento e che unito alle concause di contorno condusse allo sfondamento delle linee di Plezzo.
Certo, gli attacchi colpirono a fondo, con una preparazione accurata di artiglieria pessimamente controbattuta dalle nostre batterie. Nelle settimane precedenti, il nemico aveva studiato attentamente i bersagli e concentrò localmente anche un largo impiego di gas letali, sorprendendo le nostre difese, informate ma non adeguatamente predisposte, proprio per lo scetticismo dei Comandi italiani sulla portata dell’offensiva. Ma la sconfitta subita nella conca, oltre all’arrivo puntuale degli attaccanti a Caporetto nel rispetto del cronoprogramma (era previsto nel primo pomeriggio e così avvenne) e allo sbandamento di qualche reparto nelle retrovie, non giustificò il collasso totale che si verificò e costrinse a fare arretrare l’intero fronte dall’Isonzo al Piave. Una corsa all’indietro di oltre cento chilometri in due settimane, in una guerra nella quale le nostre avanzate erano state calcolate a centinaia di metri.
Fatale fu quindi la Zona Carnia, tra Tolmino e la Conca di Plezzo, un settore delle linee paradossalmente meno cruento e conteso di altri, nei primi due anni e mezzo di guerra. Mai i nostri generali avrebbero pensato di subire un’offensiva proprio a Plezzo, era contro i dettami tattici seguiti fino ad allora, che a loro insaputa erano stati superati. E qui c’è già un’enorme responsabilità militare.
Noi avevamo l’abitudine di attaccare a massa, con migliaia di uomini, facendoli arrampicare sui pendii per cercare il possesso delle cime, senza il quale i condottieri grigioverdi ritenevano inutile il controllo dello postazioni in basso. Il nemico ci assalì invece con un’ingente concentrazione di materiali ma a ranghi umani decisamente ridotti. E ci scavalcò, proprio nel fondovalle, nella conca “fuori mano”, dove una specie di prato era attraversato da una linea di semplici trinceramenti scavati nella terra. Un solo debole ordine di trincee, è tutto quello che i nostri supponenti signori della guerra avevano fatto allestire. Secondo i Comandi italiani, i colleghi nemici non avrebbero mai messo le loro truppe nella condizione di subire laggiù il tiro concentrato dai rilievi circostanti. La conca era stretta, le vette che la chiudevano molto alte, conquistarle avrebbe richiesto tanto tempo e dato a noi la possibilità di difenderle all’infinito, visto com’erano andate le cose fino a quel momento. La pensavano così, ma era una concezione ormai del tutto fuori luogo.
L’infiltrazione nemica penetrò in profondità, isolando le cime, dove le nostre truppe non poterono che arrendersi, pur resistendo per ore, a questo punto inutilmente. In più, la decisione fatale del comando locale di non tenere la Stretta di Saga, ritenendola a torto già oltrepassata dal nemico, consentì agli attaccanti di far transitare grandi unità e molti cannoni da una strettoia “impossibile”. Da qui il tracollo.
L’idea che la guerra si vincesse con le grosse unità e controllando le vette impedì che si vedessero addensarsi le nubi su quel fatidico tratto di fronte, considerato tutto sommato tranquillo.
Caporetto è stato un episodio assai complesso (coinvolse un milione e mezzo di militari e seicentomila profughi dalle terre invase), un evento da cui molti hanno voluto prendere le distanze o ricavare onori. I comandanti austriaci e tedeschi tentarono di appropriarsi del successo, sostenendo di aver combattuto con le tattiche di sempre o all’opposto di aver messo in atto soluzioni innovative. In Italia vi furono generali come Cadorna che accusarono i soldati, mentre i combattenti erano convinti che fossero stati i capi a condurli alla rotta.
Quella sconfitta, conclude lucidamente il prof. Nicola Labanca, fu il naufragio della guerra cadorniana, degli assalti frontali, dello spreco di uomini, però l’esercito e il Paese arretrarono ma non crollarono.
Tutto questo è ancora da approfondire. C’è lavoro ulteriore per gli storici. Caporetto non è certo tutta la Grande Guerra italiana e tuttavia aiuta a capire la nostra partecipazione al primo conflitto mondiale, la sua evoluzione dall’intervento alla fine vittoriosa.
Insomma, Caporetto avrà ancora un futuro, anche dopo il primo centenario.
Caporetto. Storia e memoria di una disfatta
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