Carri Ariete combattono
- Autore: Andrea Rebora
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2013
La chiamavano divisione corazzata, ma nel 1941 l’Ariete andò in azione nel deserto libico con gli L3, che chiamare carri armati è una bestemmia. A bordo di uno di quei trabiccoli a due posti - poco più di un guscio di acciaio attorno alla coppia di uomini che lo conduceva – c’era il sottotenente carrista Pietro Ostellino. Settant’anni dopo, il nipote Andrea Rebora ha raccolto e commentato le lettere inviate dal nonno a casa, realizzando nel 2009 per la romana Prospettiva Editrice il libro “Carri Ariete combattono” (seconda edizione nel 2013, pp. 332, euro 15,00), con un inserto di foto in appendice, gran parte patrimonio del tenente Pietro e della sua famiglia.
Ventiduenne, allievo ufficiale nel 1939 e poi aspirante di complemento in un reggimento proprio di L3 sul fonte alpino contro la Francia, venne trasferito in Nordafrica dal gennaio 1941 al marzo 1943, rientrando in Italia prima della resa delle forze italotedesche agli Alleati, in Tunisia, di lì a poche settimane.
Ventisei mesi a combattere la guerra del Duce, senza mezzi e senza strategia, a subire le “sette piaghe” della campagna d’Egitto, come le ha definite Paolo Caccia Dominioni (l’architetto alpino al quale si deve il cimitero militare di El Alamein): caldo, sete, stanchezza, sabbia, sporcizia, mosche, dissenteria.
Il suo diario andò perso, ma il nipote e ricercatore storico chivassese ha fatto tesoro delle 600 lettere e cartoline inviate da Ostellino alla moglie Alma. La giovane sposa gli aveva nel frattempo dato una figlia, che il papà potrà conoscere solo al rientro dalla Tunisia, quando la bimba aveva oltre due anni. Era nata il 14 gennaio 1941, ma Pietro si trovava a Napoli, prossimo all’imbarco sul piroscafo che salpando il 18 gennaio dal porto campano l’avrebbe portato in Libia, a combattere su quelle "scatolette".
Non si pensi a un libro di guerra tout court, lo diventa nell’insieme, grazie alla competenza di Rebora, ma è soprattutto un documento sul modo in cui quella esperienza bellica venne affrontata dai nostri combattenti, giovani vite esposte a un clima impossibile, in un contesto più che pericoloso, mortale.
Una vicenda umana quindi (pensieri, attese, sentimenti, affetti, espressi nello scambio epistolare con casa), ma che non possiamo non inserire nel vivo di una prova, che pretendeva l’impossibile e anche di più da quei ragazzi in grigioverde (o in kaki, nel caso dell’uniforme nel deserto).
Si pensi che L3 sta per carro leggero da 3 tonnellate di peso, armato con due mitragliatrici da 8 mm o un lanciafiamme (più pericoloso per i carristi che per il nemico). Il suo equivalente nell’esercito inglese era il bren carrier, una semplice autoblindata cingolata da ricognizione, comunque più confortevole.
Gli L3 della "Ariete", divisione corazzata – definizione esagerata, ma non certo per colpa dei suoi componenti – dovevano essere trasportati su camion in zona d’operazione, ma la sabbia e il fondo irregolare del deserto impegnavano ugualmente allo stremo motori e meccanica. Non videro la fine del 1941, distrutti dal nemico o messi fuori uso da avarie.
Solo tre tonnellate. Avevano di fronte tank "medi" oltre le 20 tonnellate: i Matilda, 27 tonnellate, poi surclassati sempre dagli inglesi Churchill, 40 tonnellate, per non parlare dei famosi e duttili Sherman americani, più avanti. I tedeschi avevano in linea i panzer Mark III e Mark IV, da 21 e 22 tonnellate, carri medi anche questi, con corazzature efficaci e armamento adeguato, ma carburante sempre agli sgoccioli e pezzi di ricambio da vampirizzare, prelevandoli dai carri danneggiati.
In linea, nel deserto, i piccoli L della Ariete e del sottotenente Ostellino vennero sostituiti dai nostri carri medi, gli M11/39 (M sta appunto per "medio", la prima cifra indica il peso in tonnellate la seconda l’anno di entrata in servizio), ai quali si aggiunsero gli M13/40. prima dell’arrivo sul fronte nordafricano degli M14/41, buoni soprattutto nella versione cannone semovente M40 ed M41 (questa volta la cifra sta per l’anno di costruzione), dotati come armamento migliore di un obice in casamatta da 75 mm, che li rendeva efficaci nell’impiego come cacciacarri più che come pezzo di artiglieria mobile corazzato.
Gli M41 si si distinsero in Africa settentrionale, ma il loro numero era quello irrisorio che lo sforzo industriale italiano poteva garantire. Furono costruiti complessivamente 162 esemplari, mentre l’avversario diretto inglese si permetteva di concedere all’URSS 300 dei suoi Churchill, il cui cannone sparava proietti da 75 mm, mentre i carri italiani convenzionali potevano armare solo un modesto 47 mm, al confronto un fucile a tappo. Quella nostra guerra senza mezzi e senza risorse avrebbe voluto battere colossi industriali come gli Stati Uniti, che misero in campo 49mila Sherman (30 tonnellate e buon cannone da 75 mm), per non dire dell’Unione Sovietica, che solo di uno dei tanti modelli di carri, l’agilissimo T34, produsse addirittura 84mila esemplari. Da coprire quasi l’intera penisola.
Anche questa disparità di forze è ben chiara nel lavoro di Andrea Rebora laureato in scienze politiche, appassionato di storia militare e che dopo l’esordio con questo volume ha pubblicato “Morire nella Grande Guerra” (Prospettiva Editrice, 2013), uno studio sulla psicologia dei combattenti.
Carri Ariete combattono. Le vicende della divisione corazzata Ariete nelle lettere del tenente Pietro Ostellino. Africa settentrionale 1941-1943
Amazon.it: 18,00 €
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Carri Ariete combattono
Lascia il tuo commento