Morire nella Grande Guerra
- Autore: Andrea Rebora
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2012
Quando la morte era un evento fin troppo “probabile”
Si parla di morte e il termine ricorrerà spesso nelle prossime righe. “Morire nella Grande Guerra” (Prospettiva Editrice, 2012) è un pugno nello stomaco, è vero, ma se si pensa che oggi si può morire per aver scelto il bistrot sbagliato nel centro di Parigi o mentre si ascolta un concerto heavy metal, l’ecatombe di giovani uomini un secolo fa in Europa perde ogni eventuale contenuto macabro e trova piena cittadinanza tra i titoli del centenario del primo conflitto mondiale. Andrea Rebora, appassionato ricercatore storico torinese, ha dato alle stampe nel 2012 per Prospettiva Editrice di Civitavecchia il volume “Morire nella Grande Guerra” (191 pagine 12 euro), dedicato al fronte italiano e non solo. La sua attenzione si è diretta sulla percezione fisica della morte, come apparve ai protagonisti di quegli accadimenti e come venne da loro raccontata. Ma anche allo sviluppo dell’argomento secondo l’approccio, meno emotivo e più oggettivo, di storici e tecnici a un evento “probabile”, in quelle condizioni e del quale gli uomini impegnati in prima linea restarono sempre ben consapevoli.
Rebora va al fondo di un tema presente nella letteratura postbellica, ma mai affrontato autonomamente, tanto dalla memorialistica che dalla storiografia. Trattato con estrema cautela, quasi con reticenza da tutti. Perché per parlare di morte e di morti, servono coraggio e tanta misura e occorre anche che qualcuno abbia la forza di leggere.
C’erano tante maniere per morire e, alla fine, nessuna vera ragione per farlo. Si cadeva in trincea e fuori, col sole o il maltempo. Lanciati all’attacco o schierati a difesa. Colpiti da pallottole, squarciati da lame, straziati da schegge, investiti da esplosioni, sepolti da crolli, bruciati dal fuoco, annegati nel fango, soffocati dai gas, ulcerati dall’iprite, decimati da malattie, uccisi nei tanti modi crudeli inventati da altri uomini.
La morte in quel conflitto è stata un fenomeno di massa, come mai prima. Si calcola che siano perite complessivamente undici milioni di persone. Nella sola battaglia della Somme, in Francia, nel 1916, caddero un milione di combattenti, tra anglofrancesi e tedeschi.
Ma non era solo provocata ai danni del nemico, veniva anche inflitta ai propri connazionali come strumento per reprimere l’insubordinazione, il rifiuto di combattere, la codardia, i limitati casi di ammutinamento. È stata adottata dagli Stati Maggiori per punire i reprobi e scoraggiare cattive intenzioni. Gli alti ufficiali italiani segnarono il primato con 750 militari giustiziati, il maggior numero tra gli eserciti in guerra. Anche se nell’ultimo anno la morte stessa, finì per preoccupare seriamente tutti i Comandi, che vedevano quasi annullata la risorsa umana a disposizione, visto che le classi di leva da chiamare erano ridotte agli imberbi del 1900 e agli anziani.
Intanto, affianco ala morte si doveva continuare a combattere, come Rebora mette in luce, evidenziando efficacemente l’angoscia, il ribrezzo, il disagio di chi l’aveva per compagna d’armi, in un universo capovolto: i vivi sottoterra in trincea, i morti all’aperto.
Quanto ‘al volto della Medusa’ sui campi di battaglia, è noto che nelle memorie dei combattenti e nella letteratura di guerra ricorrono visioni atroci di “fiumi di sangue”, di “montagne di cadaveri”, di distese di caduti e resti macabri a vista d’occhio. A questo proposito, tuttavia, il lavoro di Rebora riserva sorprese cita reduci che riconducono l’impatto visivo ai suoi termini reali: restano visioni raccapriccianti, ma ridimensionate da apocalittiche a terribili, da “sanguinosissime” a insanguinate. Lo storico Jean Norton Cru, militare a Verdun, ricorda poco sangue. Come ogni liquido veniva assorbito dal terreno e per trovarlo si sarebbe dovuto rovesciare il caduto. La terra stessa, smossa dalle esplosioni, copriva pozze ematiche e corpi, pur riesumando resti più remoti. E l’azione dell’artiglieria non consentiva che si formassero “tappeti di cadaveri”, che venivano affiancati solo nelle retrovie e nei pressi degli ospedali da campo, in attesa della sepoltura. Cru fa derivare questa insistenza sul sangue a fiotti dalla letteratura omerica, alla base della cultura occidentale.
Tra gli altri temi inconsueti: i problemi etici derivanti dall’infliggere sofferenze e il diverso impatto emotivo della perdita dell’amico rispetto alla violenza nei confronti del nemico.
Tanta morte e tante morti non sembrino un compiacimento macabro – ma in guerra sono altamente probabili – perché restano un argomento storico come altri, semmai con un significato perfino esorcizzante, visto che oggi l’evento si verifica accanto a noi, nella pacifica Europa, mentre realizziamo azioni normali. Ed è una morte sempre senza ragione.
Morire nella Grande Guerra. Le testimonianze dei combattenti
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