Chi ha paura dell’uomo nero. Il romanzo dell’esodo istriano
- Autore: Graziella Fiorentin
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Corbaccio
- Anno di pubblicazione: 2024
Essere costretti a lasciare la propria terra fa male, imprime una ferita insanabile. Farlo da bambini è ancora più doloroso, si soffre lo spaesamento, la frattura, senza avere nemmeno qualche strumento per elaborare le ragioni, tanto meno per accennare ad una reazione. Graziella Fiorentin aveva otto anni quando ha dovuto abbandonare con la sua famiglia la cittadina istriana dove viveva. Un’immagine dell’interno del Magazzino 18, nel Porto Vecchio di Trieste - mobili, valigie, cesti, sedie, una bicicletta - spicca sulla copertina di Chi ha paura dell’uomo nero. Il romanzo dell’esodo istriano, che la scrittrice di Canfanaro ha pubblicato in nuova edizione, dopo quasi un quarto di secolo, ora edito da Corbaccio (febbraio 2024, collana Narratori, 304 pagine).
Ha ispirato la fiction Rai "La Rosa dell’Istria”, per la regia di Tiziana Aristarco. Ha vinto il Premio del Presidente nel concorso nazionale “Firenze-Europa” 2001 e il Premio nazionale “Santa Margherita Ligure Delpino” nel 2002, oltre a meritare selezioni, segnalazioni e riconoscimenti in altri concorsi letterari, nel 2002, 2007 e 2011.
Nel Magazzino 18, architettura austroungarica nell’area dell’antico porto teresiano, vennero raccolte le masserizie abbandonate nell’esilio-fuga di oltre trecentomila italiani da quello che dal maggio 1945 era diventato territorio jugoslavo, dopo la sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale. L’emigrazione forzata derivò dalle demarcazioni territoriali del trattato di Parigi del 1945. I materiali accatastati hanno trovato nuova collocazione nel Museo della Civiltà istriana, fiumana e dalmata, nel Magazzino 26.
In realtà, la famiglia Fiorentin era andata profuga da Canfanaro d’Istria già alla fine del 1943, raggiungendo prima Chioggia, poi le campagne (il papà medico dovette accontentarsi di una condotta molto vasta e molto povera), infine Padova, dove vive attualmente.
Nella prefazione, padre Flaminio Rocchi, dirigente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, osserva che Graziella racconta vicende di dolore e d’esilio:
“Con una prosa morbida e fluida, con tono rispettoso e dolce”.
Scrive letteralmente a cuore aperto, col franco sguardo di bambina, ma non infantile. Prende tutta se stessa - di ieri, di tanto tempo fa, di quando cresceva felice nella casa dei primi otto anni di vita - e offre i pensieri, i ricordi, la profondità interiore a chi vorrà accostarsi alle sue pagine, alla sua storia personale. Non solo leggere, soprattutto capire. E solidarizzare. Non servono una particolare sensibilità o una spiccata capacità di comprensione, ancora meno di compassione. Pur non risparmiando tragedie e crudeltà, il tratto del racconto è tanto efficace e sereno che sembra di condividere l’ansia, le aspettative, le grandi e piccole paure.
Sentimenti autentici che dimostra d’avere provato nel tornare da adulta dov’era nata, per la prima volta, con il marito e due figli ragazzi. Sentiva la necessità di dimostrare che anche per lei bambina c’era stata una casa, che aveva mosso i passi su strade vere, che aveva vissuto per otto anni una vita “intensa, splendida, felice”, prima di affrontare eventi terribili, che l’hanno segnata per sempre.
“Volevo ritrovare con loro le fondamenta della mia vita, perché quello che consideravano fiaba si tramutasse in realtà, in consapevolezza e, speravo, solidarietà”.
È stata una dei 70mila bambini (lei nel 1943, gli altri nei primi anni del dopoguerra) tra i 300mila esuli forzati dal territorio istriano-giuliano-dalmata, dopo le foibe e la persecuzione etnica esercitata dai Titini per slavizzare la neo ricostituita Jugoslavia post bellica. La sua prospettiva dell’esodo è quindi quella dei più piccoli, che hanno subìto quanto, di più e peggio di giovani e adulti, senza nemmeno avere la voce per raccontarlo e per raccontarsi, com’è riuscita solo tanto più tardi a fare Graziella Fiorentin.
L’8 settembre 1943, quando si diffonde la notizia dell’armistizio dell’Italia con gli Angloamericani, anche in Istria, anzi soprattutto in quelle terre di confine, si capisce che la guerra non è affatto finita, ma ne sta cominciando un’altra, perfino più pericolosa.
Una pallottola sfiora zia Eugi, affacciata alla finestra,
“Mi hanno sparato! Se non mi fossi abbassata, mi avrebbero presa in pieno!”.
Il papà è preoccupato, avverte da un po’ una nuova tensione nell’aria. Quando il suo incarico di medico condotto lo porta nelle case degli slavi non è accolto cordialmente come in passato. Qualcosa bolle in pentola, ce l’hanno con i tedeschi, ma perché prendersela con gli italiani, che vivono qui da sempre?
Il giorno dopo, all’alba, sono svegliati dal rumore improvviso di spari, secco e ravvicinato e il crepitio aspro di un mitra. In paese sta succedendo il finimondo. Sono arrivati gruppi di partigiani slavi, armati fino ai denti. Danno la caccia agli italiani che resistono, militi fascisti, anche Carabinieri. Li uccidono. Non risparmiano chi si arrende o si consegna.
Non insisteremo sui particolari di questa fase, che l’autrice racconta senza acrimonia. Preferiamo rappresentare simbolicamente quanto accadde, ricorrendo a quello che riferisce a Graziella una donna slava. Ha abitato casa Fiorentin dopo ch’erano andati via e dice di ricordare bene la famiglia del dottore.
Il pergolato di glicini e uva non c’è più. La vasca grande coi pesci rossi, quella semicircolare con le tartarughe, il prato, il noce maestoso, accogliente: tutto arato, bisognava produrre. Gli alberi da frutta? Tagliati.
In guerra c’è sempre smania di distruggere... anche i libri, di valore, molti antichi, in italiano e in tedesco. Sul piazzale, le fiamme del falò arrivavano al cielo.
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