Ciò che non siamo
- Autore: Sabrina Campolongo
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2016
La plausibilità in un romanzo è tutto. Anche se scrivi di asini che volano: riesci a far passare per credibili gli espedienti narrativi e il gioco è fatto, hai stretto un patto fideiussorio col lettore: starà dalla tua. La verosimiglianza col reale sollecita la catarsi, solcando l’abisso che separa il narratore capace da quello no. L’altra cosa che serve a un buon romanzo è la misura, cioè il dosaggio esatto del materiale narrativo di cui sopra, a maggior ragione se rimanda agli impercettibili sommovimenti del cuore. In questo caso la sfida è ulteriormente grande: melenso e/o ridicolo sono in agguato a ogni pagina e il gioco si fa duro. Per niente facile descrivere i sentimenti senza scadere nel rosa confetto alla Liala, nel cerebrale intelletual-chic alla De Carlo o (peggio ancora) nello stucchevole giovanilismo alla Moccia.
Muovendo da una frase di Kafka posta in esergo al suo romanzo, Sabrina Campolongo elude in un sol colpo tutte e tre le trappole, ormeggiando in zona familiar-sentimentale con cinque mosse che sono cinque frammenti di vita vissuta (e taciuta), tra salti di tempo e di spazio, zero melensaggini e (semmai) sottotraccia diverse malinconie. “Ciò che non siamo” è il titolo di questo romanzo (Edizioni Paginauno, 2016) e questa è la frase di Kafka che ne riassume il movente:
“Confessione e bugia sono la stessa cosa. Per poter confessare, si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, la menzogna”.
Da qui l’architettura interiore di “Ciò che non siamo”, un’architettura trasversale, edificata su (auto)inganni, lontananze, ritorni, indagini su se stessi, rimossi, verità sentimentali frastagliate, spesso presunte. È vero insomma, che come diceva la canzone, si muore un po’ per poter vivere.
L’ingresso in una tipica famiglia borghese di Lyuba come bambina - poi ragazza - in accoglienza temporanea (Lyuba è una delle figlie del veleno nucleare di Chernobyl) è, nel romanzo, il detonatore che fa implodere le contraddizioni, i non-detto sdruccioli sulle relazioni sentimentali aldiquà e aldilà della sacra triade apparente padre-madre-figlio. Attraverso una scrittura controllatissima che evita tanto l’ombelicale quanto il piagnisteo di circostanza, Sabrina Campolongo detta le coordinate di un gioco crudele, in cui i colpi di scena sono dati proprio dalle verità nascoste. Parabole sentimentali sghembe, irrisolte, poco consolatorie, giocate sui piani inclinati delle (an)affinità elettive, delle occasioni mancate, delle evasioni extraconiugali, delle rinunce, dei sogni interrotti, dei voli bassi di tacchino. Una dialettica relazionale irrisolta che comprende, in ultima analisi, i patteggiamenti dal gusto amarognolo che sono della vita: da un lato il richiamo seducente della fedeltà a se stessi, dall’altro i diktat dettati dall’adesione al ruolo. O all’abitudine, come può essere talvolta quella rassicurante degli affetti consolidati. Nonostante le ombre.
Ciò che non siamo
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