In occasione della Maturità, dal momento che la data della prima prova scritta è ormai imminente, vi proponiamo un confronto tra i maggiori poeti italiani a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Cosa accomuna Leopardi e Pascoli? E qual è il parallelismo tra l’opera di D’Annunzio e quella di Montale? Analizziamo i principali temi della poetica di questi autori: la visione della natura, la percezione dell’infanzia, il pessimismo, il simbolismo, scovando divergenze, somiglianze e punti di contatto. Forse potremmo scoprire che la natura in Leopardi non è poi così diversa dal falso idillio bucolico della poesia pascoliana; che il pessismo in Montale non è propriamente cosmico come quello leopardiano e che D’Annunzio e Montale, tra i quali certo non intercorreva un’affinità elettiva, si incontrano nella descrizione simbolica di un giorno di pioggia.
Quali sono le maggiori similitudini e differenze tra i più grandi poeti italiani?
Vediamole nell’analisi che segue.
Confronto tra Leopardi e Pascoli: la natura
Un confronto interessante si può istituire tra Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli sul tema della Natura. Il parallelismo tra i due è inoltre impreziosito da una curiosa querelle: Pascoli contestò l’immagine de “le rose e le viole” del Sabato del villaggio di Giacomo Leopardi, mettendo in dubbio la conoscenza botanica del poeta. “La donzelletta vien dalla campagna”, ormai incisa nella memoria collettiva, reca in mano “un mazzolin di rose e viole”; Pascoli contestò questa immagine giudicandola irrealistica, in quanto rose e viole sono fiori che non crescono nello stesso periodo, ma appartengono a stagioni diverse, le viole sono un fiore invernale mentre le rose fioriscono in primavera.
Come sappiamo, un simbolo chiave della poetica pascoliana sono i fiori: dall’eros de Il gelsomino notturno al thanatos de La digitale purpurea. I fiori di Pascoli diventano un’allegoria delle primarie pulsioni istintive di vita e morte; ma, a ben vedere, non è poi tanto diversa la visione di Leopardi, sebbene Pascoli lo tacciasse di ignoranza in materia botanica. Lo stesso Leopardi ha fatto di un fiore, La Ginestra, il simbolo chiave della sua poetica: questo piccolo fiore che cresce sulle pendici dell’arido Sterminator Vesevo, allegoria di una natura matrigna, diventa l’immagine della resistenza umana dinnanzi alle avversità, esempio di coraggio e resilienza. Anche Leopardi, nel suo Canto testamento, si è tramutato in un fiore. Ma non è solo la corrispondenza floreale - benché evidentemente non corrisposta da Pascoli - ad accomunare i due poeti: entrambi conservano una visione salvifica dell’infanzia, come di una stagione felice e irripetibile della vita. Il fanciullino pascoliano traduce la visione della vita del poeta, ma anche la sua visione idilliaca dell’infanzia; lo stesso vale per Leopardi in cui è sempre vivo il rimpianto per “l’età mia nova” e la “lacrimata speme”, rappresentata da Silvia ma anche l’idea della precoce perdita delle illusioni della giovinezza che si traduce nella poetica della rimembranza.
Entrambi i poeti sembrano essere accomunati dallo stesso trauma, dal rimpianto per la felicità smarrita nella prima infanzia, e questa loro visione si traduce nella Natura: gli idilli leopardiani hanno dei punti di tangenza con le descrizioni bucoliche della poesia pascoliana.
La natura, in Pascoli, ha sempre qualcosa di ombroso, di non meglio definito (pensiamo all’atmosfera cupa de L’assiuolo) che infine rivela un tragico presagio di morte. Eppure Pascoli definisce la natura come una madre dolcissima, nella visione del fanciullino, opposta alla natura matrigna di Leopardi. Ma siamo davvero sicuri che la natura, in Pascoli, sia sempre salvifica? Il confronto con Leopardi, al di fuori delle contestazioni botaniche, potrebbe rivelare più punti di tangenza di quel che si crede. Il nido pascoliano, in fondo, è un’immagine di morte come ci rivela l’agonia dei rondinini in X agosto. L’idillio apparente della natura pascoliana non è mai tale, proprio come nelle ambigue immagini delle liriche leopardiane che, infine, della natura ci rivelano il vero volto.
Confronto tra Pascoli e D’Annunzio: fanciullino e superuomo
La natura simbolica e misteriosa di Pascoli trova invece il suo più valido contraltare nella poesia dannunziana. I fiori allegorici, che celano pulsioni d’amore e di morte, dischiudono il loro inquietante enigma e rivelano l’irrazionalità dell’inconscio che si fa strada nel reale.
Laddove la natura di Pascoli si nutre di piccole immagini quotidiane, di vita di campagna, casolari e chiesette sulle pendici della collina; ecco che invece Gabriele D’Annunzio ricerca l’eccesso, l’esaltazione, il trionfo e lo raggiunge attraverso il panismo, ovvero la totale fusione e compenetrazione tra uomo e natura, così ben testimoniata da La pioggia nel pineto. Queste due opposte visioni dello spazio naturale danno origine anche a due figure ben distinte: il fanciullino di Pascoli si oppone al superuomo di D’Annunzio, sono come il nano e il gigante. Sono due miti poetici che si oppongono, sono antitetici l’uno all’altro, pur essendo nati nello stesso periodo e nella medesima temperie culturale. Il fanciullino di Pascoli è un’immagine di purezza e innocenza, di meraviglia; mentre il superuomo di D’Annunzio traduce l’attitudine violenta e dominatrice del Vate. Il fanciullino cerca la sintonia e la complicità con il paesaggio naturale, mentre il superuomo vuole dominarlo sino a diventarne parte integrante e vitale. D’Annunzio non ricerca un rapporto autentico con la vita, ma anela solo alla dimostrazione della propria eccezionalità, della propria superiorità; Pascoli invece trasforma la natura in emozione attraverso gli occhi del fanciullino che riesce a coglierne gli occulti simbolismi. Entrambi i poeti trasfigurano il reale, facendo del mondo circostante il loro specchio: la natura che ci descrivono è quindi fatta a loro immagine e somiglianza.
Confronto tra Montale e Leopardi: il pessimismo
Spesso il pessimismo di Montale, che trae origine del male di vivere, viene paragonato a quello leopardiano. Tuttavia vi è una differenza radicale testimoniata proprio dalla loro evoluzione: quello di Leopardi diventa un pessimismo cosmico, mentre quello di Montale è un pessimismo metafisico. Inizialmente, nella prima fase della sua poetica, Leopardi concepisce la natura come una madre benigna che ha a cuore l’interesse e la cura delle sue creature; solo nel 1822 la sua visione cambia, come testimonia l’Operetta morale, Dialogo della natura e di un islandese, in cui viene mostrato il volto di una natura matrigna che non si cura degli uomini, ma solo della sopravvivenza della specie e dell’eterno rinnovarsi del ciclo naturale delle cose. A differenza di Leopardi, il poeta ligure - che pure vive la medesima angoscia, lo stesso senso di estraniamento - proietta da subito all’esterno le ragioni del proprio malessere: il “rivo strozzato che gorgoglia”, “il cavallo stramazzato”, “la foglia riarsa”, e vede in ogni oggetto la testimonianza della propria infelicità. La sofferenza, specialmente nell’ultimo Montale, assume un valore metafisico.
Il “male di vivere” di Montale è una definizione dell’esistenza individuale e pure universale, che non lascia trasparire alcun presagio di salvezza. Il Leopardi della Ginestra deride le “magnifiche sorti e progressive”, eppure è ancora combattivo, non piega il capo sconfitto, continua ad affrontare il proprio “secol superbo e sciocco”; mentre Montale cerca la fessura, il varco, la lontananza, l’enigma che gli permetta di mettersi nel mezzo di una verità.
Un verso tuttavia accomuna fortissimamente i due poeti: “A me la vita è male”, scrive Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, il Male di vivere di Montale gli fa eco e diventa la sua cassa di risonanza, senza indulgere nell’idillio e sprofondando subito nell’arido vero. L’unica salvezza è l’Indifferenza, ma è per l’appunto divina e non appartiene agli uomini. Anche qui corrisponde la visione di Leopardi in L’ultimo canto di Saffo:
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal.
Confronto tra D’Annunzio e Montale: il meriggio e la pioggia
Non intercorreva proprio un rapporto idilliaco tra D’Annunzio e Montale; il secondo prese pubblicamente le distanze dal primo, ribadendo di non essere un “poeta laureato” che si muove soltanto tra le piante dai nomi poco usati (come ci dimostra il manifesto di poetica montaliano ne I limoni, Ndr), eppure alcuni critici ipotizzano che la poesia di Montale abbia un debito nei confronti dell’opera dannunziana.
Il poeta ligure rivendicava l’essenzialità della sua poetica, il linguaggio scarno, legato alla concretezza del vivere, agli oggetti e quanto mai lontano da latinismi e arcaismi; eppure possiamo riscontrare delle inattese similitudini tra i due poeti, forse persino volute.
Ce lo dimostra il confronto tra alcune opere, come Meriggio di D’Annunzio, contenuta in Alcyone (1903) e Meriggiare pallido e assorto di Montale, contenuta in Ossi di seppia (1924), in cui alcune immagini sembrano ripetersi: i luoghi di Montale non sono così dissimili da quelli di D’Annunzio, come ci dimostrano le spiagge solitarie, i canneti che tremano nel vento, i ginepri arsi. Pur se narrato con parole diverse, il loro “meriggiare” non è poi così dissimile: c’è una continuità linguistica anche nelle immagini con cui si riferiscono all’acqua, come il “salso stagno”, la fuga delle “due rive che si chiude come in un cerchio”. Immagini dannunziane o montaliane? Difficile dirlo e proprio qui sta l’enigma: forse Montale non apprezzava D’Annunzio, ma di certo l’aveva letto bene.
E ancora, la similitudine ritorna ineffabile tra La pioggia nel pineto dannunziana e i versi montaliani di Piove che si fanno parodia della celebre lirica, citando inoltre il nome di Ermione. Se la pioggia dannuziana diveniva simbolo per eccellenza del panismo: unione dell’umano con la natura e unione carnale tra i due amanti, ecco che invece Montale rompe l’incantesimo e narra l’assenza. La pioggia di D’Annunzio era un’epifania di amore inteso nel senso più estremo di erotismo, mentre Montale la rovescia facendone emblema di silenzio, smarrimento, perdita. D’Annunzio celebrava la sua Ermione, alias Eleonora Duse; mentre Montale narra la perdita della moglie, Drusilla Tanzi, detta Mosca, l’indimenticabile protagonista di Ho sceso dandoti il braccio. Sono due poesie antitetiche, eppure in qualche modo si assomigliano, e - lo capiamo - la somiglianza è voluta e ricercata.
Infatti Montale cita esplicitamente D’Annunzio, gli fa il verso: “In assenza di Ermione”. Spesso Piove viene interpretata come una parodia lirica, però, forse Montale stava rimarcando il suo debito nei confronti dell’opera dannunziana: quindi è plausibile dire che, infine, Eugenio Montale e Gabriele D’Annunzio si siano incontrati in un giorno di pioggia, lontano dalla solarità scrosciante degli alberi dei limoni.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Un confronto tra i maggiori poeti italiani: Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Montale
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