La pioggia d’autunno è un leitmotiv della poesia italiana. Il suo irruento scrosciare, lo stillicidio improvviso di gocce che invade le strade, i viali, si insinua nei cunicoli e negli interstizi, sono stati cantati in vario modo dai poeti.
Analizziamo, in particolare, due poesie tra loro speculari: La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio e Pioggia di Eugenio Montale.
La prima fu scritta nel 1903 e canta la metamorfosi panica dell’uomo con la natura; mentre la seconda fu scritta nel 1971 e si propone proprio in contrapposizione alla prima. Montale riprende lo schema idilliaco di D’Annunzio e lo ribalta: ciò che nel poeta-vate è un’ode all’amore, nell’autore degli Ossi di seppia diventa un elogio della solitudine.
Degna di nota è anche la poesia dell’autrice novecentesca, Ada Negri, che si intitola proprio Pioggia d’autunno e riunisce in sé le tendenze contrapposte di Montale e D’Annunzio: in Ada Negri troviamo il tema della metamorfosi panica, in quanto la poetessa si trasfigura in una foglia, ma cogliamo nei versi anche la caducità della vita e la solitudine esistenziale cantate da Montale.
Vediamo più nel dettaglio testo, analisi e confronto tra le poesie dedicate alla pioggia d’autunno
Pioggia d’autunno: un confronto tra Montale e D’Annunzio
Nella celeberrima lirica La pioggia nel pineto, contenuta nella raccolta Alcyone, Gabriele D’Annunzio attraverso la pioggia compie un processo di metamorfosi: il poeta e la sua amata si fondono nella natura circostante, silvana, che li avvolge.
Il poeta-vate realizza il tutto con magistrali effetti pittoresco-musicali, la poesie viene introdotta innanzitutto da un suono, quello della pioggia. Le voci umane si affievoliscono e si spengono all’imperativo “Taci” e s’ode solo il battito delle gocce sulle foglie, sui tronchi, sui pini e sulle ginestre.
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Attraverso l’insistenza sui richiami sonori, dati anche dall’uso frequente di allitterazioni, D’Annunzio compie la metamorfosi an
che da un punto di vista linguistico.
Eugenio Montale che, come sappiamo dalla poesia I limoni ribadisce che i poeti laureati (D’Annunzio) si muovono solamente tra le piante dai nomi poco usati (vedi le “tamerici salmastre e arse” di D’Annunzio, Ndr), nella poesia Piove, contenuta nella raccolta Satura (1971), fa una specie di parodia della lirica dannunziana.
Piove. È uno stillicidio
senza tonfi
di motorette o strilli
di bambini.
L’epifania con la natura descritta da D’Annunzio in questi versi sparisce, per lasciare spazio a un ambiente urbano dove il suono soave della pioggia viene coperto dagli strilli dei bambini che giocano e dal rombo delle moto che circolano in strada.
Il poeta vate cantava la “favola bella”, le illusioni umane dell’amore che la coppia nutriva nell’atmosfera incantata della pineta dove la pioggia battente li avvolgeva come un incantesimo d’amore.
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione
Montale invece rompe l’incantesimo, narra “l’assenza di Ermione”, una sorta di paradiso perduto. La pioggia diventa, appunto, uno “stillicidio” che sommerge l’anima dell’autore, travolgendola con la mancanza di senso soffocante della realtà. È la marea del progresso che tutto sommerge con le sue leggi e allontana l’uomo dal contatto salvifico con la natura. La pioggia, nei versi montaliani, si fa metafora di un’assenza universale e dell’ineludibile solitudine umana.
La solida realtà - con le sue implacabili leggi - si contrappone alla favola mitica dannunziana; l’amore si rovescia in morte. Nel finale della poesia di Montale emerge l’assenza di Ermione - in questo caso trasfigurata in Drusilla Tanzi, la moglie del poeta, la cara Mosca che riposa per sempre nel cimitero di San Felice.
Piove
in assenza di Ermione
se Dio vuole,
piove perché l’assenza
è universale
e se la terra non trema
è perché Arcetri a lei
non l’ha ordinato.Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.
La “Pioggia d’autunno” nella poesia di Ada Negri
A placare il dissidio stridente tra Montale e D’Annunzio interviene la poetessa Ada Negri che nella sua Pioggia d’autunno compone un’epifania malinconica dai toni elegiaci.
Ada riprende il panismo dannunziano, identificandosi in una foglia d’autunno appesa al ramo di un albero che si imbeve d’acqua piovana sin nelle fibre. Nel tema della foglia autunnale Ada Negri riprende il topos della caducità della vita umana che qui si trasfigura nel ciclo della vita ripreso attraverso il susseguirsi delle stagioni, reso attraverso un’anafora: “che non morrò, che non morrò”.
La bellezza di Pioggia d’autunno di Ada Negri è resa dalla purezza del suo canto che mescola in sé la “favola” dannunziana con la solida realtà montaliana, riuscendo comunque a far trasparire, nel finale, un messaggio di speranza. Mentre in Piove di Eugenio Montale trionfava la morte e l’assenza, Ada Negri nella sua epifanica Pioggia d’autunno affida l’ultima parola alla natura, che sempre nasce e si rinnova, mutando “volto,” proprio come nella metamorfosi dannunziana “piove sui nostri volti silvani”. Per Ada Negri la pioggia d’autunno è metafora di solitudine esistenziale e presentimento di rinascita.
Vorrei, pioggia d’autunno, essere foglia
che s’imbeve di te sin nelle fibre
che l’uniscono al ramo, e il ramo al tronco,
e il tronco al suolo; e tu dentro le vene
passi, e ti spandi, e si gran sete plachi.
So che annunci l’inverno: che fra breve
quella foglia cadrà, fatta colore
della ruggine, e al fango andrà commista,
ma le radici nutrirà del tronco
per rispuntar dai rami a primavera.Vorrei, pioggia d’autunno, esser foglia,
abbandonarmi al tuo scrosciare, certa
che non morrò, che non morrò, che solo
muterò volto sin che avrà la terra
le sue stagioni, e un albero avrà fronde.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La pioggia d’autunno in poesia: da D’Annunzio a Montale
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