Cosa resta
- Autore: Walter Cremonte
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2018
Walter Cremonte (1947) vive a Perugia, dove ha insegnato in un liceo, occupandosi di letteratura e pubblicando diverse raccolte di versi. La sua poesia spazia da temi personali e sentimenti intimi - raccontati sempre con estrema delicatezza - a contenuti di maggiore rilevanza sociale.
Con il pudore e l’understatement che caratterizza la sua scrittura e la sua intera esistenza, ha scelto di consegnare i propri versi a brevi sillogi distanziate nel tempo.
Cosa resta, edito nel 2018 per aguaplano, raccoglie componimenti tratti appunto da plaquette uscite tra il 2001 e il 2016, più due testi inediti.
Le prime composizioni riferiscono con amarezza fatti di prevaricante violenza sociale: l’emigrazione, le morti sul lavoro, il carcere. Episodi dolorosi che appaiono tuttavia solo sintomi di un disagio esistenziale più profondo ed esteso, in cui l’essere umano è avvertito come vittima di un’ingiustizia universale ingiustificabile e incomprensibile: la labilità e l’inconsistenza del vivere, la condanna a finire nel nulla. Ne è metafora il papavero raccolto nel campo e messo pietosamente in un vaso, pur sapendo che è destinato a sfiorire, curato “come qualcosa che dura”.
Resistenza, potrebbe essere il leitmotiv che caratterizza queste pagine: resistenza al male, all’infelicità, alla superficialità, alla morte.
Cremonte lo afferma con convinzione già nella premessa, concordando con l’opinione diffusa che la poesia non serva a niente:
“Forse la poesia non serve, ma è. Necessariamente. Forse non serve (non vale) nel grande supermercato del valore di scambio, dove tutto è merce (anche noi), ma serve (vale) per il valore d’uso che ha, o potrebbe avere… Prefigurando così un altro mondo possibile”.
Il dialogo con la poesia attraversa tutta la raccolta, sia nelle dediche esplicite a poeti amici (Scataglini, Ottaviani), sia nelle citazioni di versi di Dante, Leopardi, Penna, Caproni e nelle eleganti traduzioni di classici latini (Orazio, Lucrezio, Virgilio, Catullo, Marziale). Ma soprattutto sfruttando una sensibilità poetica che travalica la stessa effettiva produzione in versi, e si esprime nella contemplazione della bellezza, nei gesti d’amore trattenuti, in un sorriso “che non si lascia prendere”, in una parola che si smorza sulle labbra per pudore.
Nella mappa geografica puntualmente descritta dall’autore, i rifiuti abbandonati Lungo il Tevere non oscurano il verde incanto dell’erba curva sull’acqua, “i monti azzurrini” sullo sfondo del Trasimeno offrono e negano insieme un significato alla percezione dell’infinito, gli operai di un cimitero celebrano “il loro tempo beato” ridendo incuranti del lutto, un bar chiude sulle illusioni degli avventori, un’autostrada indifferente conduce comunque verso una meta. La luna rimane luminosa nonostante tutto:
“Cara luna / perché splendi / così bella / sopra i cumuli / dell’immondizia // così alta, pulita: svelandoti del velo / del cielo / mostri una via d’uscita / forse, ma dove / andiamo, dove / mia cara luna”.
Pur nel contrasto continuo tra bellezza e squallore, gioia e dolore, vita e morte, è comunque lo sguardo stupito e grato di chi scrive a offrire una risposta alle domande eterne sul significato dell’esistere: “Perché il senso / è nel cercare il senso / non nell’averlo trovato”.
La voce sommessa, pudica, del poeta non ha bisogno di esibire i suoi affetti, tantomeno la passione: le basta dire una lunga fedeltà, come quella ai propri morti (il padre Lelio, l’amato figlio Nicola), che continuano a vivere in chi li ricorda:
“Potrei dire fumo una sigaretta / o vado sul balcone a guardare / è una bella giornata / perché no // solo che loro non lo / possono fare / non è che ho molto altro da dire”.
Il lettore si sarà già reso conto da queste poche citazioni che Walter Cremonte, anche nel trattare emozioni e argomenti alti o dolorosi, si serve di un linguaggio colloquiale e umile, di parole consuete e addirittura letterariamente abusate, deciso a evitare qualsiasi ampollosità o preziosismo, smorzando i toni, evitando la retorica. Se parla della compagna di una vita intera, Giovanna, utilizza addirittura una velata ironia:
“Ce la facciamo amore / il cielo è così azzurro / così cara la vista al nostro cuore / dell’orto del vicino, del convento / con la campana che accompagna il dolce / vento, non più di tramontana. // Qualche volta (basta non far rumore) / gli accadimenti, gli eventi, il nemico / sonnecchiano un poco / e si respira, dài ce la facciamo”; “Questa è una poesia d’amore / e non puoi farci niente / la devi prendere // è come il tempo / quando il tempo è buono / o quando non è buono // è una poesia d’amore / la devi prendere”.
Il rifiuto dell’assoluto e di una trascendenza mistificatrice affida a una filosofia della quotidianità l’accettazione tranquilla del reale, testimonianza di un’abitudine che rimane cara e unica per chiunque sappia apprezzarla nella sua nuda verità:
“Cosa resta / da fare: / scrivere che la vita è male? // E portare avanti le gambe / una poi l’altra / come alla giostra / ecco che cosa / resta”.
Cosa resta
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