Davanti a Trieste
- Autore: Mario Puccini
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Mursia
- Anno di pubblicazione: 2016
Un poeta in guerra, un uomo di lettere e di sentimenti con una stelletta da sottotenente sulle maniche della giacca grigioverde. Il marchigiano Mario Puccini, libraio figlio di libraio, editore ma soprattutto scrittore, tra i principali protagonisti della letteratura italiana negli anni tra le due guerre, racconta due mesi al fronte, nel conflitto 1915-18, in un libro-diario intenso come un romanzo, “Davanti a Trieste. Esperienze di un fante sul Carso” (pp. 206, euro 12,00). Mursia lo ha pubblicato a cento anni dagli eventi narrati, tra le novità della collana Testimonianze fra cronaca e storia, in una versione curata dall’italianista Tancredi Artico, con un agile inserto fotografico.
La prima edizione risale al 1919, venne pubblicata insieme ad altri due suoi testi di memorie belliche della Grande Guerra, “Dal Carso al Piave” e “Come ho visto il Friuli”, tra i numerosi firmati dallo scrittore di Senigallia (1887-1957) nel corso di un’intensa attività letteraria: poesie, romanzi, racconti brevi e lunghi, articoli e pubblicazioni. Poeta verista e antidannunziano, Mario Puccini ha collaborato alla Voce e Vasco Pratolini teneva a segnalare l’immeritata indifferenza da parte della critica, che lo lasciava in seconda linea rispetto ai grandi, tra i quali avrebbero dovuto collocarlo a buon diritto.
Pur inserito in un trittico, il libro mantiene una sua autonomia narrativa e storica, oltre a mettere in mostra la felice capacità di scrittura dell’autore. Sottotenente di complemento, non ancora trentenne nel 1916, Mario Puccini è uomo colto, riflessivo, democratico (quanto gli pesa il distacco dalla truppa imposto dal grado, tutti contadini e gente semplice). Il suo modo di scrivere è assai valido, assolutamente moderno e non privo di spunti narrativi stilisticamente eleganti:
“qualche cane, al nostro passaggio, abbaia… la notte sa di mentastro”
ma in tenda filtrano correnti d’aria che danno di camposanto…
“penserà la terra di lassù, il Carso, a macchiare le divise grigioverdi ancora fresche di ago e stiratura”
indossate dagli ufficiali all’arrivo in linea.
Il libro è dedicato al colonnello Zoilo Mantellini, comandante del secondo battaglione del 47° fanteria della Brigata Ferrara. Inquadra eventi nell’arco di due mesi, da settembre a novembre 1916, fase positiva per le sorti italiane dopo la vittoriosa sesta battaglia dell’Isonzo o quanto meno non negativa, al netto delle perdite dolorose che si continuava a subire.
Sul treno che da Udine lo portava a Cormons, avvicinandolo alla linea del fuoco sul Carso, osservava i soldati, che gli mostravano volti normali,
“né di morenti, né di rassegnati. Qualcuno dei nuovi, di quelli che vanno per la prima volta al fronte”
era perfino curioso di vedere i luoghi dove altri hanno combattuto: San Michele, Sei Busi, Sabotino. La speranza di ognuno è di sopravvivere, tacita, silenziosa. Non osano pronunciarla, nemmeno tra compagni d’arme, gente che condivide la stessa esperienza.
Al comando di divisione, nei pressi di Gradisca e Sdraussina, saluta con simpatia i colleghi ufficiali con cui ha viaggiato, destinati ad altri reparti. Si augurano reciprocamente qualunque cosa, tranne quella che hanno in mente tutti:
“nessuno osa dire all’altro di non morire”.
Il sottotenente libraio è legato ai suoi fanti, di tutte le regioni d’Italia, in loro vede
“il nostro popolo, i contadini nostri di ieri, la povera gente che non sa nulla, se non che bisogna obbedire, soffrire, e, ove occorra, morire. E pure, noi li abbiamo visti cadere, li abbiamo fatti seppellire, li abbiamo deposti in barella, moribondi, senza una lacrima, senza commozione”.
La prima notte in linea, a Bosco Cappuccio, è segnata dalla nostalgia per casa. Poi la Brigata è spostata a Oppachiasella (con i suoi è di rincalzo), un buon esito, trincea nemica, prigionieri e bottino, ma la Marche a lato ha urtato invano contro le posizioni di Nova Vas, troppe mitragliatrici. Si dovrà ritentare. È la tragica routine della guerra di posizione, pochi metri, tante perdite, sacrifici inutili.
“Si resta più o meno dove ci si è mossi, se non proprio sulle stesse pietre di partenza”.
Quanti caduti. Ci si abitua ai morti in guerra, ma Puccini non riesce a fare a meno di notarli intorno e osserva che gli austriaci mantenevano lo stesso rispetto per i loro caduti. Segnalavano le sepolture con una croce, proprio come gli italiani. Poi arrivava una salva di granate, un’altra ancora e i poveri corpi erano riesposti e scempiati.
Ha il tempo di scrivere altre belle pagine, di esprimere tanto calore umano, sia pure taffreddato dall’obbligatorio distacco con la truppa: la morte dell’attendente calabrese, il costante attaccamento alla vita di ciascuno dei bravi fanti. Poi viene ricoverato in ospedale militare, combattuto tra la consapevolezza di avere lasciato i suoi uomini e l’umana soddisfazione d’essere sopravvissuto.
C’è tempo, scrive,
“anche per un esame di coscienza quando si è in un ospedaletto tra coltri riposate e calde. Sei sicuro di aver fatto bene il tuo dovere? Di essere stato un esempio per i tuoi soldati? No. Potevo far meglio. Su tutti i ricordi o rimorsi, una verità conta e mi inebria: sono vivo. Vivo, vivo. I morti sono lassù, sotto la terra ghiaccia, al riparo di una debole croce. I vivi possono ancora respirare, cantare, chiamarsi per nome; e, sì, dirsi anche che si vogliono bene”.
Davanti a Trieste: Esperienze di un fante sul Carso
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