Dieci
- Autore: Elena Loewenthal
- Genere: Religioni
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2019
Dieci sono i comandamenti che Jahvè detta a Mosè sul Sinai e dieci sono i capitoli che Elena Loewenthal dedica al loro commento nel suo ultimo saggio, intitolato appunto Dieci (Einaudi, 2019).
Elena Loewenthal (Torino, 1960) insegna Cultura Ebraica allo Iuss di Pavia e all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, collabora con “La Stampa” e ha pubblicato numerosi volumi e studi sulla tradizione religiosa, culturale e letteraria di Israele. Le citazioni bibliche e talmudiche presenti in questo piccolo libro einaudiano sono state da lei tradotte con una particolare adesione morfologica e sintattica al testo originale: da ciò è derivata una lettura capace di prendere coraggiosamente le distanze dall’esegesi più tradizionale.
Il primo capitolo si apre sottolineando le due differenti versioni di Genesi sulla creazione (“Nella sua breve essenzialità, è stata fonte inesauribile di ispirazione, interpretazioni e travisamenti”), per analizzare poi più approfonditamente il dialogo tra Dio e Adamo nel giardino dell’Eden, fatto di richiami e nascondimenti, di delusioni e timori (l’uno in cerca della sua creatura, l’altro che rispondendogli pronuncia per la prima volta il pronome personale “io”).
Un dialogo tra il Signore e l’uomo che si ripropone nel corso di tutto il Pentateuco: spesso impositivo, conflittuale, intessuto di silenzi. Jahvè è qol, voce che parla e propone una comunicazione: Adamo, Abramo, Giacobbe, Mosè ascoltano. Impauriti, dubbiosi, confidenti o recalcitranti.
“Ascolta, Israele” (“Shemà, Israel”, Dt 6, 4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore”) è una preghiera tuttora pronunciata dagli ebrei due volte al giorno.
Dopo aver ascoltato, questi uomini biblici rispondono, attuando una dinamica di confronto e di ricerca reciproca fatta di parole udite e scambiate, di obbedienza e disobbedienza, di rispetto e di ira: ovvero, di libertà.
Sulla consegna delle tavole a Mosè (“il momento centrale di tutta la Bibbia ebraica”, “scena di grande mobilità, carica di forza narrativa”), Elena Loewenthal si sofferma enucleando alcune incongruenze e molti interrogativi. Per due volte i dieci comandamenti (devarim: cose, parole, pronunciamenti) vengono affidati al profeta, incisi su tavole di pietra. La prima redazione, distrutta da Mosè stesso in un impeto di rabbia, era stata scolpita su due lastre dalla mano di Jahvè: di essa non rimane alcuna traccia. Il testo delle seconde tavole, recuperate in una successiva salita sul Sinai, è riportato nella Bibbia due volte, con poche variazioni, in Esodo 20, 2-17 e Deuteronomio 5, 6-21: stesure simili, ma non uguali. Due sono anche i toponimi della montagna in cui è avvenuta la rivelazione: Sinai e Choreb. “Tutta la rivelazione è all’insegna della doppiezza”, postilla l’autrice del commento.
L’imperfezione della Torah, con le sue aporie, si adatta all’imperfezione dell’uomo, richiedendogli un intervento interpretativo.
Il mondo è, dunque, l’irruzione dell’imperfezione dentro la perfezione, il tutto che è Dio.
Il testo della legge ‒ assolutamente normativo, poiché impone cosa fare e cosa non fare, come succede con altre raccolte di regole comportamentali e liturgiche negli ultimi tre libri del Pentateuco ‒ è solo consonantico: ad esso è stato aggiunto in epoca medievale il sistema vocalico, che lo ha reso più melodioso all’orecchio (ancora una volta, “Ascolta, Israele”). Elena Loewenthal ne sviscera i molteplici significati, rimarcando il peso che tutto l’ebraismo ha da sempre attribuito alla parola, scrigno del sapere e del potere, ponte che collega cielo e terra.
Così, se la Bibbia inizia con la seconda lettera dell’alfabeto, bet, i dieci comandamenti esordiscono con la prima, alef, che contrassegna il pronome “io”: “Io sono il signore Dio tuo”. Io, anokhí, pronome di persona singolare pronunciato per la prima volta da Adamo.
Qualcosa di profondo e cruciale lega i due passi, nella trasgressione e nell’obbedienza, dal giardino alla montagna, da una voce all’altra.
E poi c’è il “tu”, poiché ogni comandamento è diretto a una seconda persona singolare (“Non farai”, “Non dirai” …), sempre maschile: soggetto e oggetto della comunicazione sono decisamente maschi, essendo la donna nominata fuggevolmente solo come proprietà o conquista. Il dialogo è comunque a due, un discorso diretto tra due individualità. Si tratta inoltre di imperativi negativi, di proibizione, che raffigurano un Dio possessivo, minaccioso, punitivo, addirittura geloso. Succube delle passioni come le sue creature (“Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non alzare il nome del Signore Dio tuo invano”). Nel cuore del Decalogo stanno i due unici comandamenti positivi: “ricorda” e “osserva”. Poi tornano i divieti: cinque “non”, relativi al controllo delle azioni in un ambito più sociale e collettivo che personale.
Quindi, il silenzio.
Jahvè ha parlato, si è pronunciato. Ma al Decalogo, suggerisce Elena Loewenthal, andrebbe aggiunto un undicesimo comandamento: “Non causare dolore”. Il silenzio sul dolore degli uomini e delle donne rende il messaggio di Dio imperfetto, non conchiuso, in attesa di un compimento “nella giustizia e nel bene”.
Dieci
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