Diversorium
- Autore: Marco Vitale
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2016
Il "Diversorium" nel linguaggio della Vulgata indica la locanda dove poveri artigiani e agricoltori al termine di una dura giornata di fatica, deposto l’aratro, si abbandonavano alla comunione del pasto e del gioco, riconciliandosi per qualche ora, nell’imminenza della notte, con le gioie elementari della vita. E’ il luogo di una compagnia raccolta e fedele che sta immancabilmente come in veglia, da una posizione laterale ma significante, nel paesaggio evocativo e sapiente di ogni Presepe napoletano che si rispetti. Del resto se una compagnia umana non si riunisse sul far della notte, per giocare a carte, che valore avrebbe l’attesa? Chi si accorgerebbe di una nascita?
Marco Vitale, da molti anni residente a Milano dove vive e lavora dopo lunghe esperienze in alcuni dei maggiori centri di cultura e civiltà europei, è originario di Napoli, e della città natia custodisce tra l’altro dall’infanzia l’incanto del presepe e la sua anacronistica narrazione di un luogo originario, intatto. La sua poesia, fin dagli esordi, reca la testimonianza nella sua meditata costruzione formale, nel rigore e nella fermezza dello stile, di una ispirazione nutrita di fiducia nella parola, nella sua ingenita pregnanza che attinge al sacro e, al contempo, di una consapevolezza inquieta del suo ineffabile limite, della sua "patina" (e patina, va detto per inciso, è il termine più ossessivamente ricorrente nell’idioletto dell’autore) attraversata da infinite, inesorabili incrinature.
Questo nuovo libro di versi si intitola giustappunto: "Diversorium" perché nel diversorium non c’è "patina", ma un’atmosfera di realtà nuda e cruda che nella sua impassibile obsolescenza trascorre dal quadretto folklorico nei domini della poesia più rarefatta: una visione di vita nascente, radicata a un’essenza più profonda, pneumatica, rintracciabile impalpabilmente nei segni (direbbe Heidegger) di una "casa lontana" a cui vorremmo, pur con i nostri strumenti insufficienti, ricongiungerci. E’ qui, tra le mura presaghe del diversorium, che uomini ebbri, di vino e di tenebra, vegliano inconsapevoli il Verbo nascente, ma il Verbo fatalmente nasce lontano, prossimo e remoto dal calore accogliente di quelle pareti familiari, nella distanza ventosa di una notte solitaria. E’ questo il punto insondabile dove il Sacro rivelandosi sconfina? Per Giuseppe e Maria, che porta nel suo grembo il Verbo, nella locanda non c’è posto, perché il diversorium è "completo". Il Verbo, dunque, nasce Altrove. Lontano dai pasti e dai canti, ma riscaldato da quell’eco, da quella traccia di luce carnale, di contubernali distratti, che in qualche modo ne presagisce il senso, lo anticipa. Così e non diversamente avviene per la poesia. La parola poetica come l’anello del Liocorno ne "La nuit talismanique" di Char è un infinito sconfinamento, uno spaesamento estremo. E dopo? O è piuttosto il "Prima", cui incessantemente tendiamo... quel "prima" che non sappiamo, che possiamo rintracciare soltanto sperdendoci tra versi e pietre, sfiorando i contorni di una domanda incolmabile che il verso soltanto si ostina a recingere, radiante di somiglianze sfuggenti ("sfuggente si fa il lessico"), di un silenzio molteplice di voci, che all’improvviso riaffiora dalla superficie del nostro mondo colmo di rumore. Quante domande, quanti versi sconfinanti da paesaggi in rovina nella poesia di Vitale, nel tono interrogativo di un’evocazione, di una richiesta di senso.
Ed ecco, appunto:
"Quanti indizi ritornano/quanti poveri indizi, coincidenze/malintesi di un tempo che potrebbe / vivere ancora un poco e tu/ forse ancora sorriderne."
scandisce il poeta nell’incipit di un componimento ispirato da un viaggio in treno, in cui il ritmo della voce, e dei versi, confondendosi con i percorsi sinuosi della strada ferrata, trasale, irrompe inatteso da un orizzonte frammentario e lo trasfigura. Un tempo non lineare, che non può che andare in circolo; un tempo che ritorna trasformato nello stesso punto, ma a un livello più alto e impareggiabile, che porta con sé, travisandola, una vertigine, un incanto che ci parla dall’altrove di una lacerante separazione.
I versi, come l’erba incolta, come le pietre (di antiche abbazie o di edifici dell’anonimo contemporaneo) sono dunque la patina trascolorante di una realtà che al pari della parola poetica si ostina a dire, a parlare, nella sua pienezza elusiva, ma che non sappiamo dire nel suo vero nome, se non per approssimazioni di sguardi e visioni interrotte: glosse da decifrare, vergate su antiche membrane sopravvissute tra i frammenti del tempo, in cui il mondo per un attimo ci sorprende ridotto alle dimensioni di un "firmamento portatile". Gli iperbati, le ardite inarcature e altre figure ritmiche e prosodiche che attraversano profondamente come lame di affilate cesoie l’orditura classicheggiante delle strutture formali, scrostando la vernice esterna della sintassi poetica, ci appaiono il corrispettivo stilistico di una frattura ontologica, e irriducibile: una distanza, che si ostina a crescere inquieta tra la vulnerabile parola e il suo indeducibile punto di origine; forse quella campagna immobile
"come talora / ci si immagina la vita".
Il Presepe, dunque, è per Marco Vitale il centro periferico del mondo, che ci chiama da un’origine intrinsecamente notturna, sconfinata come una fanciullezza; un luogo separato da noi e purtuttavia unitario, in cui poter consistere nonostante tutto, sostando per un istante al calduccio, tra partenze e ritorni, nella forma dicibile di un’attesa. In tal senso, il Presepe è il doppio di un altro archetipo centrale nell’immaginario del poeta: quello lunare. E difatti "Lunario calabro" è il titolo di una sezione del libro in cui ritroviamo, con una tecnica compositiva già felicemente esperita nelle raccolte precedenti, la cifra inconfondibile di una coscienza poetica che sovrapponendo a un paesaggio reale le visioni di un paesaggio fantastico, dalle tinte laforguiane, ne restituisce con un senso pittorico e insieme musicale la consistenza di luce evanescente. Come se l’occhio sensibile del poeta trattenesse dal chiarore lunare una sensazione sinestetica che si rifrange in percezioni, uditive oltre che visive, di una totalità sfuggente, circonfusa da un’eco dolorosa che si riverbera in aloni sonori e visuali mediante un’esperienza onirica, una costruzione di immagini che è l’esito di una paziente stratificazione della memoria nel simulacro precario del segno. Un’esperienza fantastica, una luce d’inverno (così dolce e struggente e al contempo concreta e surreale che pare riflettersi dalla grazia di un paesaggio bertolucciano) impastata nel ricordo con un lieve attrito di rimembranze amorose trattenute dall’ascolto di pittori e poeti lungamente frequentati.
Di questo consustanziarsi nel libro di sentimento lirico e senso pittorico, in una simultanea musicalità di visione, recano un’ulteriore, preziosa, testimonianza i disegni di Enrico Pulsoni; e sembra che una comune sapienza, un medesimo sottosuolo leghi felicemente questi inchiostri, quasi a suggellare una continuità di ispirazione (si consideri il testo poetico che reinventa da una medesima radice di sguardo il "Presepe fiore" dell’artista abruzzese) e una compartecipazione fisica tra le due materie del libro, consustanziate della medesima crosta del pensiero, rappreso sulla pagina in grumi di parole e colori: memoria protesa oltre la solitudine, nostra e altrui, nell’incanto e lo sforzo incessante di vedere e interrogare.
Diversorium
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