Educatori senza frontiere. Diari di esperienze erranti

Sebbene avessi già sentito nominare l’esperienza degli Educatori Senza Frontiere, non sapevo che i diari di viaggio avessero un ruolo così importante. Mi ha colpito soprattutto la qualità della scrittura di questi resoconti intimi di cui troviamo vari stralci nel libro, perché si percepisce che lo stile, spesso poetico, è intimamente intrecciato con l’esperienza che descrive.
Messaggio e stile, contenuto e contenente non sono mai banali, come se i viaggi descritti, più che srotolarsi tra i cinque continenti del mondo, fossero stati intrapresi dentro ogni educatore per tirarne fuori le parole più essenziali. Anzi: deve proprio essere così! L’educazione è bidirezionale, è un’immersione. Ci si tuffa in un paese straniero, con una mano si dona e con l’altra si riceve. Non si può non cambiare e gli effetti si vedono anche nella scrittura.
Le pagine dei diari che ci vengono proposte in questo libro sembrano scritte da gente nata con la penna in mano; non hanno molto da invidiare ai passaggi degli autori più conosciuti che comunque vengono citati qui e là: Pessoa, Sepulveda, Carofiglio, Canetti, Pontiggia, Terzani, Rumiz... Il viaggio cambia gli occhi e il diario diventa strumento per prendere atto di tale cambiamento e, al tempo stesso, strumento di formazione e testimonianza.
Ecco perché la banalità delle parole e delle esperienze, per un educatore senza frontiere, è bandita: per forza di cose! Siamo ai limiti della follia perché, come dice Don Antonio Mazzi,

l’educazione crea unicità, anticonformismo.

Non un travaso di cognizioni, ma un incontro tra esseri umani.
Per diventare Educatori Senza Frontiere bisogna essere folli, essere pronti a seminare nei letamai, fregarsene dei soldi, fregarsene di essere una minoranza e bisogna scegliere l’avamposto come seconda identità.
Insomma, più che un elogio della follia, un invito a metterla in pratica.