Emmesedici. Castigo e castigo di Alessio Caldini

Volete un libro diverso? Questo lo è certamente. “Emmesedici. Castigo e Castigo” non è un’opera per ignoranti, questo è certo. Il linguaggio di Alessio Caldini è una personalissima mistione di termini colti, alcuni addirittura coltissimi, dialettali, francesismi, parole provenienti da linguaggi tecnici di diverse sfere (balistica, guerra, meccanica…). Il periodare è lungo e complesso, con digressioni che tentano di far perdere al lettore più distratto il filo della frase.

Senza rischiare di fare paragoni azzardati e lontani dico che, leggendo questo romanzo, mi è venuto in mente il Gadda del Pasticciaccio, quella complessità della realtà difficile da districare, che viene resa da un’apparente confusione stilistica, da un rifiuto dei classici stilemi in nome del trionfo della complessità e della varietà. La storia si tesse in maniera concitata, non lascia respiro, e ogni riga va meditata, aggiunta alle precedenti dopo averla un po’ lasciata decantare nel nostro cervello. Gli episodi si susseguono terribili, ma venati di un’ironia che sembra ghiaccio sui denti, cruda, abbacinante, sapiente. Il protagonista, Saverio, un tempo era un giovane erudito, studioso di filologia (ci ricorda forse Alessio Caldini stesso?) che aveva tante speranze e un futuro ruggente davanti. Ma poi la vita lo ha penalizzato e la donna che amava tanto lo ha lasciato.

Cosa fa allora il nostro eroe? Come un innamorato deluso della più classica letteratura si arruola nella legione straniera e piano piano mette in atto una metamorfosi che lo trasformerà in uno spietato e sanguinario mercenario. Saverio non c’è più, sulle sue ceneri si è materializzato Lucien Le Pentrec. Ma anche costui deve cedere il passo, dopo anni di polvere e sangue, al criminale stanco della vita, riconosciuto con l’evocativo pseudonimo di Joker.
La storia di quest’uomo comincia però dalla fine, lo conosciamo nei suoi panni peggiori, quando si trova invischiato in brutte faccende in cui trascina anche un’innocente sarta dal lampante nomen omen di Angelica.

Il bello di questa storia è che all’inizio della lettura mette in testa una gran confusione e ci sfida a tenere insieme i pezzi, a incollarli uno accanto all’altro come frammenti di un antico reperto; a poco a poco cominciamo a mettere in fila ogni dettaglio e a dargli precisa collocazione e alla fine saremo soddisfatti di noi, della nostra capacità, e ci diremo che i nostri studi sono serviti a qualcosa. Finalmente uno stile personale, l’esaltazione della forma (spesso oggi dimenticata e trascurata) e non solo del contenuto.