Il 22 maggio 1873, esattamente 150 anni fa, moriva a Milano Alessandro Manzoni. Ma quanto è stato determinante l’influsso dell’autore dei Promessi Sposi nella letteratura e nella lingua italiana?
Lo stesso Manzoni sottopose la sua opera capolavoro, I Promessi Sposi, a una profonda revisione linguistica come dimostra la cosiddetta “sciacquatura dei panni in Arno”, ovvero l’atto di modificare il testo originale del Fermo e Lucia secondo il volgare fiorentino, ritenuto l’italiano “più corretto” e “più giusto”. L’autore dei Promessi Sposi infatti considerava Dante Alighieri, il primo letterato a interessarsi alla lingua popolare con la stesura della Commedia, il modello assoluto cui guardare.
L’influsso di Manzoni sulla lingua italiana
La questione della lingua, a sette anni dall’Unità d’Italia realizzata nel marzo 1861, era un tema spinoso: permaneva una pluralità di dialetti legati all’appartenenza territoriale e l’unità culturale e sociale della lingua sembrava ancora una prospettiva lontana. Eppure da lì bisognava partire, dall’incognita dell’italiano non ancora nato, in un’epoca in cui l’analfabetismo era dilagante. L’istruzione e l’adozione di una lingua comune avrebbero cementificato il sentimento patriottico, rendendo l’Unità d’Italia effettiva ben oltre il piano geografico.
Sotto questa prospettiva il lavoro letterario di Manzoni fu fondamentale per l’unificazione linguistica come dimostra l’influsso sia pedagogico che culturale della sua opera.
I Promessi Sposi ha concorso alla creazione di una lingua moderna, più vicina al parlato popolare, libera da influssi regionali e stranieri come latinismi, venetismi e francesismi. Manzoni fu tra i primi a battersi perché fosse adottato nelle scuole l’uso di un vocabolario della lingua italiana; forse non avrebbe nemmeno potuto immaginare che la sua opera avrebbe svolto una funzione equivalente. Non si contano infatti le parole di Manzoni che hanno plasmato la materia incandescente della lingua, entrando di comune accordo nel parlato, tanto che le citiamo - a volte senza saperlo - ancora oggi.
Scopriamo 10 espressioni manzoniane che sono entrate nell’uso.
1. Ai posteri l’ardua sentenza
Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza, questo interrogativo contenuto nel il 5 maggio è divenuto celebre, lasciando di fatto aperta la questione sull’eredità napoleonica. Saranno i posteri a dimostrare la statura dell’uomo, del condottiero, dell’eroe, non certo i suoi contemporanei; solo loro potranno dire se la sua memoria sarà stata capace di sopravvivere al tempo. “Ai posteri l’ardua sentenza” è diventata un’espressione comune nel parlato, citata spesso in modo ironico per chiudere un discorso: rimettiamo ai discendenti e agli eredi la facoltà di giudicare, la risposta spetta a coloro che verranno, non a noi.
2. Carneade! Chi era costui?
Ricordate l’astrusa e inattesa domanda che apre il capitolo VIII dei Promessi Sposi? “Carneade! Chi era costui?”, ruminava tra sé Don Abbondio, dopo lo spavento dei bravi, riflettendo su una citazione contenuta nel panegirico in onore di San Carlo Borromeo che stava leggendo. La domanda, indirettamente, si pone anche ai lettori che si trovano a lambiccarsi il cervello alla ricerca di una risposta: Carneade, scopriamo, era un filosofo greco ma appartenne a una scuola minore e il suo nome non risultò mai tra i più illustri. Ancora oggi questa espressione “Carneade” viene utilizzata quando personaggi di poco conto vengono immeritatamente portati agli onori della cronaca.
3. Essere una Perpetua
Il nome della fidata - ma non troppo - domestica di Don Abbondio, Perpetua, è venuto a designare nel linguaggio comune la donna di servizio di un sacerdote. Nel tempo il nome di Perpetua si è esteso anche in generale per indicare una persona anziana o dedita alle attività domestiche particolarmente pettegola e ciarliera. “Sei proprio una Perpetua”, si dice anche nella burla prendendosi gioco di chi fa troppi pettegolezzi da comare.
Perpetua nel romanzo ci viene presentata come “serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione”, in realtà è una figura molto solida che oppone alla vigliaccheria di Don Abbondio un solido buon senso popolare, ed è capace di manovrare il curato secondo le sue intenzioni portandolo a compiere la scelta più giusta.
4. Essere un Azzeccagarbugli
Già il nome è un programma, e Manzoni non lo scelse a caso. Nomen omen dicevano i latini, certamente vale per l’avvocato Azzeccarbugli colui che, accampando pretesti su pretesti, rifiuta di assistere Renzo nella sua causa contro Don Rodrigo. L’avvocato compare nel terzo capitolo dei Promessi Sposi e Manzoni prima lo descrive attraverso gli occhi di Agnese, la madre di Lucia, che ne fa un ritratto descrittivo (alto, asciutto, pelato e ha un naso rosso) che anticipa il ritratto morale poi completato da Renzo. Si delinea così l’immagine di un uomo di legge corrotto e vile che non vuole mettersi contro i potenti.
Ancora oggi l’espressione Azzeccagarbugli designa un avvocato da strapazzo, oppure un uomo vile e incapace che cerca di sottrarsi alle proprie responsabilità.
5. Dare l’addio ai monti
Nel capitolo VIII troviamo uno dei passi più celebri dei Promessi Sposi “Addio monti sorgenti dalle acque ed elevati al cielo, cime inuguali...”, che descrive il paesaggio del Lago di Como visto attraverso gli occhi di Lucia che se ne allontana, è diventato l’emblema dell’addio al luogo natio. Ancora oggi si dice “dare l’addio ai Monti” per indicare il saluto commosso, nostalgico, definitivo a qualcosa - un luogo, una persona - a cui si è molto legati.
6. Quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello
Celebre espressione, cara ai Lombardi. Viene citata nel diciassettesimo capitolo dei Promessi Sposi quando Renzo si trova a Milano e continua il suo viaggio sino alla periferia, decidendo di sostare in una capanna nella notte. Al risveglio guarda il cielo e si accorge che l’alba promette luce, ma lui non ha occhi per quel:
“cielo di lombardia così bello quand’è bello, così splendido così in pace”
Renzo continua a camminare di buona lena perché ha fretta e non ha tempo, l’espressione però si è incisa nella mente del lettore. I lombardi sanno che vedere un cielo terso, senza nuvole, è una vera rarità, quindi “com’è bello, quando è bello”, Manzoni racchiude in una sola frase l’irripetibilità di un evento raro e prezioso. L’espressione viene usata nel linguaggio comune per intendere questo e non soltanto una bella giornata dalle condizioni metereologiche favorevoli.
7. I capponi di Renzo
Quella dei capponi di Renzo - i polli che il protagonista porta in pegno all’avvocato Azzeccarbugli in cambio dei suoi favori - è una metafora preziosa. Manzoni descrive i movimenti del protagonista mentre trasporta i capponi e ci offre così un esempio illuminante:
Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.
Da qui è entrata nel gergo comune l’espressione “fare come i capponi di Renzo”, per descrivere la tendenza - tutta umana - di accapigliarsi nelle avversità invece di essere solidali e aiutarsi a vicende. Anche gli uomini, come i capponi di Renzo, nella sventura tendono a beccarsi tra loro e a litigare invece di cercare insieme una soluzione.
8. E la sventurata rispose
Nel capitolo X, in cui narra le vicende della Monaca di Monza, Manzoni inserisce un’ellissi significativa considerata un capolavoro di retorica.
L’autore conclude con:
E la sventurata rispose.
Una frase che da sola, senza necessità di aggiungere altro, ci dà prova ed entità del tradimento di Gertrude che da quel momento in poi si esporrà a una serie di colpe che la degraderanno sempre più nel corpo e nell’anima. Il discorso viene lasciato in sospeso, non viene detto nient’altro, ma il lettore può facilmente immaginarne la conclusione. Questa citazione rappresenta, da sola, l’emblema della tragica parabole della Monaca di Monza e dell’incomprensione del suo personaggio.
La frase è un esempio della grande abilità stilistica di Manzoni scrittore, ma viene spesso usata anche nel linguaggio comune con un intento parodico per indicare un tradimento, oppure la caduta nella colpa.
9. Un altro paio di maniche
A scriverlo per la prima volta fu Alessandro Manzoni nel capitolo XXVII raccontando delle difficoltà di Renzo impegnato a scrivere lettere a Lucia e a sua madre Agnese. Con questa espressione Manzoni rende l’idea del livello di alfabetizzazione del personaggio. Nonostante le sue origini Renzo riesce ad esprimersi correttamente nel linguaggio parlato e sa anche leggere seppur impiegandoci molto tempo, la scrittura però è diversa, precisa Manzoni:
Lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo tempo; lo scritto è un altro par di maniche.
“Un altro paio di maniche”, non si contano le volte in cui, nel parlato, si fa uso di questa espressione!
10. Il sugo della storia
Nella conclusione del suo capolavoro Manzoni, da anonimo narratore del manoscritto ritrovato, cita con ironia il sugo della storia, ovvero ciò che a suo giudizio dà senso, sapore e significato all’intera vicenda narrata.
La morale nel linguaggio manzoniano è “sugo”, quindi viene spogliata di qualsiasi accento aulico ed elitario, perché è una verità somma che però ci viene data attraverso le vicende di povera gente che si è confrontata, suo malgrado, con i guai del proprio tempo. Alla fine Renzo e Lucia dimostrano ai lettori che bisogna aver fiducia in Dio e nell’agire della Divina Provvidenza per superare i problemi e le traversie della vita.
L’espressione “sugo della storia” è divenuta celebre, viene spesso citata scherzando quando si vuole arrivare a un punto dopo un discorso o una dissertazione molto lunga e interminabile: “qual è il sugo della storia?”
Che ne dite, quante volte avete ripetuto queste espressioni manzoniane nella vostra quotidianità? Vi siete resi conto di citare Manzoni?
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: 10 espressioni di Alessandro Manzoni che sono entrate nel linguaggio comune
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Se non ricordo male, alla fine del racconto, l’erede di don Rodrigo offre il pranzo agli sposi ma Manzoni dice , non ho un ricordo preciso, che dopo la cerimonia lo stesso si ritira a mangiare con don Abbondio perché "è democratico per offrire il pranzo agli sposi, ma non così democratico da mangiare con loro.