Espropriazioni
- Autore: Barbara Buoso
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2023
Nei racconti contenuti in Espropriazioni al centro c’è una terra natia (vorrei dire “madre e padre”, e a volte matrigna) che non è solo simulacro, è appartenenza a un patrimonio sedimentato: ricerca, empatia e comunione affettiva, immedesimazione protettiva e rigenerante, luogo di metafore e simboli in cui un’esperienza individuale riflette su se stessa e si frantuma, partecipa alla memoria culturale e al pathos degli eventi, li commenta, li contestualizza, ponendosi, allo stesso tempo, come oggetto sia di meditazione sia di contemplazione individuale, non diventa mai una “veduta”, un telone di sfondo staccato dall’azione e dagli uomini.
Per questo concordo con quanto scrive, nella sua bella introduzione, Mario Martone quando parlando di “scrittura sulla soglia”.
Barbara Buoso descrive davvero i suoi protagonisti restando sulla soglia ma con la testa girata, per entrare nelle stanze della loro vita, che ha recuperato e condiviso restituendoci una varietà di caratteri e di situazioni che ci coinvolgono pagina dopo pagina. Ha perlustrato lo spazio vitale originario che i personaggi sono stati costretti ad abbandonare, con uno sguardo attento ai cambiamenti del passato, ma anche capace di guardare “oltre”, “avanti”, oltre la porta; oltre un’identità impietrita.
Uno sguardo rivolto allo scarto sorprendente che li identifica ora in un altro spazio, libero o costretto che sia, ma inaspettato e sorprendente perché vero, di un’autenticità che non ignora la fatica costata a spostare il masso che ostruiva la caverna, quel tunnel scavato nella terra madida. Senza tacere della sequenza di esergo davvero evocativi che ci introducono alle vicende narrate scatenando l’emozione dell’attesa.
I racconti contenuti in Espropriazioni (Vita Activa Nuova, 2023) sono storie vivide che sorprendono in un percorso di riconoscimento in cui ci si perde volentieri rimpiangendo ogni volta l’ultima scena, la copertina che chiude il libro e resta rigida tra le mani perché si ha nostalgia della voce che sa evocare la rugiada sui fili d’erba, il vento che soffia tra le foglie dei gelsi, la grandine che spacca le zolle e i coppi delle case, ma soprattutto la grana di una terra “gnucca”, quel Polesine che sa di sudore e di fatica in una lotta continua con l’acqua che minaccia di sommergerlo e che nasconde i tratti di una autobiografia schermata e dissimulata.
Mi permetto di soffermarmi un attimo proprio sulla “terra gnucca”, un sostantivo che, tra l’altro, mi appartiene. Per nascita.
«Terra»: un sostantivo che contiene una somma di significati assai importanti proprio in questo ambito narrativo. Terra come parte di uno “spazio geografico”, territorio, ma anche “suolo”, superficie su cui si cammina, materiale del terreno che contiene elementi necessari per la vita naturale e valore collettivo contadino, “i campi”, dove prevale la connotazione semantica della storia originaria del Veneto che come osservava Goffredo Parise nel 1941- era ed è forte, barbaro e dunque produttivo:
[…] per la forza barbarica della terra che ha prodotto lavoro nei campi fino a ieri e ora produce lavoro nelle fabbriche. […] La sua arte se nasce senza alcun dubbio dalla cultura (non c’è arte senza cultura), affonda anch’essa dentro la terra, nelle sue radici, nei suoi minerali, nel suo fondo di fuoco.
Ecco perché leggendola ci immergiamo nella storia della letteratura veneta, a cui Barbara appartiene come protagonista, e ci confrontiamo, subito, con un territorio e un paesaggio fervido tra valichi montani e vie d’acqua, una terra fittamente abitata, una terra impregnata di lavoro, memorie, pensieri, che si muove, vive e invecchia, subisce il fluire del tempo individuale e generazionale, ma che conserva e in parte rimpiange un’immagine fortemente legata a un passato rurale in cui l’uomo era il vero genius loci, perché figlio di una cultura e di un ecosistema storico e sociale su cui aveva impresso i suoi segni di riconoscimento (le coltivazioni, le dimore, le strade, i cimiteri) in sequenze culturali successive, fino ai giorni nostri, quando di tutto o in parte siamo stati espropriati.
Nel contrasto tra l’alfabeto dei cosiddetti “giusti” che ossessionano Dario nel racconto “Il ronzio delle vespe” io azzardo che si possa cogliere sia pure metaforicamente la novità della scrittura di Barbara Buoso, la sua ricerca di parole nuove, originali, native, parole che scandagliano l’animo umano, le sue increspature, la sbucciature delle cadute e gli appigli per la risalita.
Perché vincere la tradizione, la compostezza frigida di una scrittura farcita di ovvietà oggi richiede una tempra forgiata e affilata come la lama impugnata dal braccio coraggioso che tagliava l’erba sfidando gli argini del fiume.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Espropriazioni
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