Fine pena: ora
- Autore: Elvio Fassone
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Sellerio
- Anno di pubblicazione: 2015
“Fine pena: ora” (Sellerio, 2015, pp. 210, euro 14,00), se non si conoscessero i retroscena, potrebbe sembrare tranquillamente un romanzo. Ma la realtà supera molto spesso la fantasia e si tratta invece di una storia vera. Elvio Fassone (ora in pensione) nel 1985 presiede a Torino un maxi processo alla mafia catanese: 242 gli imputati e tra questi c’è Salvatore, 27 anni.
Durante le udienze si farà notare con lo stile spavaldo del boss: a volte intemperante, a volte aggressivo, ma il giudice lo scruta senza perdere mai la calma. Si osservano a vicenda, in realtà. Salvatore è scaltro, intelligente. Elvio Fassone un uomo attento, giudice rigoroso ma da sempre empatico e sensibile verso i bisogni dei detenuti. Il procedimento durerà due anni e tra i condannati all’ergastolo c’è, appunto, Salvatore. La prima notte da recluso di quest’ultimo è per il giudice una notte insonne dove riemergono le frasi dei colloqui intervenuti con l’allora imputato:
“se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia!”.
Elvio Fassone prende carta e penna e comincia così il suo rapporto epistolare, con l’invio di “Siddharta” di Hermann Hesse e che durerà ventisei anni:
“Nemmeno tra due amanti è pensabile uno scambio così lungo”
dice. Il giovane risponde:
“Presidente, io lo so che lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge, ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare. E io la ringrazio del libro e le assicuro che farò come dice lei”.
Il suo interlocutore-giurista attraverso le lettere lo consiglia, anche per pratiche burocratico-giuridiche, lo esorta, in particolare a studiare, infonde coraggio e speranza laddove questa ormai si possa considerare perduta. Elvio Fassone descrive questa sua esperienza epistolare e di vita, lasciandoci prima che un libro, un documento di grande umanità, parlando senza retorica e senza mai dimenticare che dietro un gravissimo crimine ci sono comunque e sempre delle vittime e i loro familiari.
“Fine pena: ora” racconta però anche di un processo avvenuto nell’ordinamento precedente alla riforma del codice di procedura penale ma con l’applicazione dell’inasprimento delle pene per tutti i condannati “per associazione” con l’introduzione del regime del 41-bis avvenuto in seguito alle stragi del 1992 e che vedeva uno Stato in piena emergenza. Ovviamente questo influenzerà e non poco sullo stato d’animo del detenuto Salvatore.
L’autore impone a sé stesso e al lettore più di una riflessione, è evidente, arrivando alla critica e all’auto-critica, mai banale e mai forzata. Innanzitutto, il fare giustizia non termina con una sentenza: una sentenza di condanna non è, e non dev’essere, solo un punto di arrivo. A cui si aggiunge il complesso, e mai affrontato seriamente, discorso sulla funzione riabilitativa del carcere.
Alla fine troviamo infatti un’intera postilla dedicata alle possibili modalità di superamento dell’ergastolo, con un netto no a quello ostativo e, considerando i dovuti distinguo rapportati all’età del condannato e alla sua personalità, Elvio Fassone ne espone le ragioni, sia politiche che sociali:
“La detenzione, ove non mitigata da un trattamento educativo reale, è una morte parziale, l’asportazione di una porzione di vita”.
Da “Fine pena: ora” è stato tratto uno spettacolo teatrale con Sergio Leone nella parte del magistrato e Paolo Pierobon in quella del carcerato, per la regia di Mauro Avogadro e adattamento di Paolo Giordano, vincitore del Premio Strega nel 2008.
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