Gli dei dell’Egitto
- Autore: A. Moret
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
I libri d’antan, modernariato per amatori, possiedono un fascino speciale: quando sono buoni libri, nelle loro tematiche superano i pregiudizi del tempo in cui sono stati scritti e molto spesso anticipano il futuro. Hanno l’aureola dell’utopia, regalano speranza e prospettive da realizzare.
Il saggio Gli dei dell’Egitto dello studioso francese A. Moret (Spartaco Giovene edizioni, pp.121, 1945) racchiude tali caratteristiche.
Si trova ancora in rete, si legge d’un fiato, dato la stile rigoroso (supportato da molte note) ma discorsivo. Ha il sapore di un sogno antico, eppure avveniristico: la mistica descrizione e il contatto con un Dio creatore e provvidente, non autoritario, che aiuta l’essere umano a non temere e a superare la morte.
Si tratta del Dio Aton, il disco splendente del sole, il cui adoratore è stato il faraone Amenofi IV, che volle mutare il suo nome in Kounaton o Akenaton, vissuto intorno al 1370 a C. Un Dio molto vicino al Padre buono di Gesù Cristo, il cui comandamento d’amore è sempre disatteso. Eppure i cristiani, dal I al V secolo, non hanno compreso le analogie tra le due divinità, hanno avversato ciò che viene chiamato paganesimo, specie il culto di Iside, la materna sposa di Osiride, una Madonna col bambino Horus tra le braccia, venerata in tutto il bacino del Mediterraneo e affermatasi nell’Impero Romano, i cui misteri permettevano al singolo "vocato" di trovare la liberazione dalla materia peritura e diventare simile agli dei.
Akenaton, con un’operazione capillare, scalzò il culto millenario ormai corrotto di Amon, comandando agli scalpellini di distruggere questo nome. Cancellare il nome per gli Egiziani significava distruggere il Ba, l’anima della persona e del Dio.
Il faraone “eretico” venne costretto alla riforma radicale monoteista dalla dittatura della classe sacerdotale amonita, ormai padrona dell’Impero, che esercitava brutalmente il potere sia economico politico, sia quello religioso. Egli divise i due ambiti, come Dante ha tentato di fare nel suo De Monarchia. Akenaton vi riuscì per 16 anni. Evoco a sé i gettiti economici e i diritti della manomorta (diritto perpetuo di proprietà); riceveva direttamente i sudditi e li ascoltava e provvedeva alle loro esigenze. Spostò la capitale da Tebe a El-Amarna. I suoi inni sono ricchi di amore rivolto a ogni essere, anche animale, verso gli spiriti dei 4 elementi (aria, acqua, terra, fuoco).
In realtà i suoi cambiamenti ripristinarono il culto originario di Osiride, il primo Dio Redentore della storia, che dalla V dinastia, oltre cinquemila anni fa, con la sua passione e resurrezione, ucciso dal fratello Seth manifestazione del Male, tagliato da questi in 14 pezzi, chiuso in un sarcofago, gettato nel Nilo, ritrovato e riportato in vita dalla devota Iside attraverso la magia, diede all’uomo e anche agli dei precedenti la certezza dell’immortalità. Come non leggere in lui una prefigurazione di Cristo?
Moret afferma che la morale dell’antico Osiride è quella che troviamo nel Vangelo di Matteo XXV.
Nel Libro tibetano dei morti parla un trapassato, rivolto alla dea Maat (la Giustizia) e al dio Toth (il sapiente inventore della scrittura, e pure psicopompo, trasportatore delle anime, affine al greco Hermes). L’uomo dice di sé:
Io vivo di verità, io mi sono conciliato Dio col mio amore: io ho dato pane all’affamato, dell’acqua all’assetato, dei vestiti a chi era nudo.
Anche ne L’Apocalisse troviamo un angelo su un cavallo nero che tiene in mano una bilancia. Da sempre le anime vengono pesate, valutate dalle potenze celesti.
È entusiasmante compiere il viaggio dalla terra al cielo eterno che l’antichissima cultura ha promesso ad ogni uomo di qualunque classe sociale con la "psicostasia" o "pesatura del cuore", posto sulla bilancia di Osiride, giudice dell’aldilà. Il cuore doveva essere leggero come una piuma, retto e giusto, perché l’anima vivesse in eterno. Diversamente un mostro divorava il cuore.
Una tradizione appare pure nei testi delle piramidi della V dinastia ed è questa: che i morti sono giudicati secondo quanto hanno fatto e che devono essere inscritti nel libro dell’altro mondo per avervi un’esistenza assicurata.
L’autore si occupa a lungo di questioni filologiche. Geroglifici è il nome che venne dato alla misteriosa scrittura da Clemente Alessandrino nel II secolo d. C., dal greco hieroglyphikà, che significa “lettere sacre incise”. Il padre della Chiesa comprese che gli ideogrammi dovevano essere distinti in simbolici e fonetici, questi ultimi da lui chiamati “sirologici”. La grande avventura interpretativa era iniziata.
Fondamentale al riguardo è stata la scoperta della stele di Rosetta (una città) o “tavola smeraldina" nel 1789, da un ufficiale napoleonico, contenente iscrizioni in tre versioni: geroglifico, demotico e greco antico. La lingua copta è una derivazione del demotico, una specie di stenografia, abbreviazione fonetica dei geroglifici. Senza il copto questi ultimi sarebbero ancora indecifrabili. Lo studioso più illustre del settore è stato Champollion, nel XVIII secolo.
Anche Zeus, nell’Iliade di Omero, usa una bilancia d’oro per pesare la psiche di Achilleed Ettore, ma l’elemento morale qui è meno accentuato, conta essenzialmente il valore del guerriero.
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