Gli ombelichi tenui e altre prose
- Autore: Antonio Castelli
- Categoria: Narrativa Italiana
Alla sommità della montagna, sopra un largo mammellone rugoso, sta arroccato il paese. Un fitto reticolo di case basse e tozze, di tufo, livide, tumefatte dall’umidità, che la calce tiene appena unite col suo midollo decrepito. Nei mesi freddi la vita si rapprende, quasi agonizza, svenata dal gelo e dalla tramontana. Gli uomini, quelli che possono scamparli, vanno a svernare al bar o al Circolo dei Civili. Tutti e due sul Corso, a pochi metri l’uno dall’altro, essi sono i luoghi del paese che consentono di durare sino all’estate, di sopravvivere forse.
Questo raffinato brano è l’incipit dell’opera Gli ombelichi tenui (Arnaldo Lombardi Editore s.r.l., Palermo 1988, e già pubblicato nel 1962 nella collana “Narratori” della Lerici), su cui Sciascia soffermò l’attenzione, recensendola su “L’Ora” del 20 marzo 1963.
Diciamo innanzitutto che Antonio Castelli è nato a Castelbuono il 14 settembre 1923 ed è tragicamente morto a Palermo, città in cui da molti anni risiedeva, l’11 giugno 1988. A Cefalù, dove visse per diversi decenni, frequentò il Liceo Mandralisca; dal Comune il 18 febbraio del 1986 gli fu conferita la cittadinanza onoraria. Del resto, egli si dichiarava Cefaludese “per formazione e vita”:
Cefalù: qui sono cresciuto (la mia patria), mi sono formato, mi sono nutrito. Non nutre solo il cibo… L’attenzione, sguardi, ascolti – nutre; nutrono le amicizie, incontri contatti; le meditazioni (soliloqui e colloqui).
Collaborò al “Mondo” di Pannunzio e al “Caffè” di Vicari. È del 1967 per i tipi della Vallecchi Entromondo; nel 1985, per la casa editrice Sellerio, esce Passi a piedi nudi a memoria, opera definita da Sciascia nel risvolto di copertina una “fusione” dei primi due testi. La casa editrice Sciascia ha pubblicato nel 2008 l’opera omnia intitolata Opere.
Nel necrologio all’amico suicida, pubblicato sulle pagine del quotidiano “La Sicilia”, Sciascia scrisse:
Il titolo alludeva ai sottili ma vitali e tenaci legami tra lo scrittore e il luogo, per dirla con Pirandello, del suo “involontario soggiorno”; e il libro veniva a configurarsi come una specie di diario.
Ombelichi tenui risulta a Sciascia particolarmente toccante e nella recensione scrive:
Un libro fatto di racconti brevi, di veri e propri “caratteri”, di notazioni diaristiche: ma queste forme, in cui lo scrittore declina la propria attenzione alla realtà, non sono in effetti che sfaccettature della realtà stessa, e il libro trova coerenza e unità nel “paese come cosmo”.
Fra gli aforismi spicca quello in cui lo scrittore volge attenzione alla meraviglia corrosa dall’esasperato consumismo:
L’innocenza è la capacità di meraviglia: oggi nessuno si stupisce più di niente, ma la sorpresa è la chiave dell’appagamento.
Castelli fa riferimento ad una “teologia dell’innocenza” che vince e convince e permette all’altro “di sostare nella tua domus interiore”. Difatti con l’innocenza “si galleggia in una sospensione beatifica e salvifica”.
A proposito di “meraviglia”, spicca il brano in cui lo scrittore con leggerezza descrive l’innamoramento delle farfalle che copulano in cielo come a volere metaforicamente indicare la magia dell’amore totale che trascende ogni limite:
- Farfalle – I voli a due indicano riti nuziali – la farfalla femmina vergine per il corteggiamento emette delle sostanze ormonali (ferormoni da ferormao) e la farfalla maschio eccita le vola accanto fino alla copula che avviene sempre in alto nel cielo.
A suggestionare Sciascia è il brano di chiusura del libro, tanto originale quanto commovente:
Paese come cosmo. A vedere, a sentire meglio d’ogni altro gli armonici del colore di un paese, di una strada, di un profilo architettonico, di una periferia, di un profilo architettonico, di una periferia, sono i nativi. Per quell’immorare lungo dei loro occhi nei luoghi e negli ambienti in cui essi vivono; per quell’invecchiamento che, insieme, compiono la loro vista e quei luoghi, quegli ambienti. Le epifanie terrestri e celesti del colore di un paesaggio, di un monumento – la loro sempre nuova e diversa ossigenazione – sono le epifanie del “visus” estetico, della sensibilità illuministica del riguardante. Egli più ha pratica del vedere, più le avverte. (Il nativo coglie il colore “giusto” perché è portato spontaneamente a percepire un colore di relazione, d’assieme.) Cos’è che avvilisce gli “sradicati”, li fa patire tanto, sino a consumarli, se non il distacco dal paese, dalla casa, quell’alienazione del loro “humus” costitutivo? Nella comunità alla quale apparteniamo, nel paese dove nasciamo risiede la nostra nozione del “colore”; e la nostra “misura” d’uomo è regolata da un ordine bioetico delle “somiglianze”. Sono l’“assoluto” fisiognomico e l’“assoluto” cromatico, calati nel crogiuolo della terra natìa, a modulare il nostro consistere.
Nel capitolo conclusivo Ultime pagine è l’autore stesso a chiarire il senso della sua opera:
Il mio libro è un’autobiografia al plurale, al collettivo, perché è il paese, è Cefalù che si racconta attraverso i suoi caratteri e le sue caratteristiche, il suo modo di vedere e di vedersi, attraverso il suo specifico cefaludese, che è un fortissimo privilegio e un’aristocratica dissipazione cioè l’attitudine affabulatoria, godibilmente ironica, giocosa dei Cefaludesi.
Il merito riconosciuto è che
il Circolo è l’osservatorio più qualificato ed autorevole della città siciliana, ed i suoi soci quasi per ascendenza statutaria, compongono come una sorta di giuria permanente delle gonnelle locali.
È il luogo “più caldo del paese”, ed ecco la descrizione dell’ambiente:
Un gran salone, con un anello di poltrone e divani d’un vivido rosso, qualche rotocalco e i pettegolezzi del paese, possono restituire, molto schiettamente, un’immagine netta di un qualsiasi Circolo di Compagnia che si rispetti.
Natale Tedesco, che ha curato la prefazione, pone in risalto il brano nel capitoletto d’inizio I talenti della noia in cui Castelli parla di un luogo prettamente siciliano: il Circolo Unione del Corso Ruggero, che viene additato e connotato come “strabiliante fabbrica affabulatoria”. Prosegue dicendo che la natura dell’ironia benevola di Castelli si avverte in un lacerto di Dove l’infanzia ha uno stelo lungo, nella seconda parte del libro:
Da un finestrino seguo, non visto l’allegro tramestio che avviene nella terrazza della casa di fronte. Luigino e la cameriera, appoggiati a un muretto del breve rettangolo, stanno lì a parlottare. Luigino si aiuta con le mani, anzi, è proprio con le mani che vuol farsi capire. Egli è un giovametto su 15 anni, assai lesto, studia in città presso un istituto retto da religiosi, ed è in famiglia per le vacanze. Luigino pare decisamente lanciato, saltella intorno alla cameriera, le schiocca pizzicotti sulle guance; poi atteggia le mani a pugno, la colpisce lievitandole le braccia, il petto. La donna, abbondante, non brutta, non più giovane, con puntuti e sparsi cespuglietti di peli sul volto, ha una veste ampia e stinta, con scollature avare attorno alle ascelle, la carne è biancastra e flaccida, propria di molte, castigate donne del Sud, la carne che anche d’estate è costretta a corrompersi sotto i pori. Essa si schermisce appena, indietreggia goffamente risaccando sui fianchi. Le vie dell’inferno sono infinite, ma una tentazione coi baffi!
Acuto e rapace è lo sguardo di Antonio Castelli che si manifesta in una raffinata ed elegante descrizione delle prime esperienze sessuali tra Luigino e la cameriera baffuta; sulla vita del paese si rivolge il suo occhio attento, cogliendo segnali che lo conducono a immagini d’amara ironia come quella dell’arrivo in paese d’una sorta di luna park con giochi, cui partecipa anche lo scemo del paese. L’ironia è dolceamara:
In piazza: gente s’affolla attorno a un carrozzone. Il sistema, assai ingegnoso, della lotteria – dove i premi sono giocattoli e generi alimentari – la stuzzica al gioco. Pare che ne tragga piacere, e profitto, a giudicare dalle molte persone che vi formicolano rumorosamente. Tra quelli che “puntano” c’è Peppe, lo scemo; uno scemo mansueto, beatissimo. Avanzato negli anni, cadente, solo al mondo, con un casto sorriso perenne negli occhi. Ha vinto! Anche a lui viene rivolta la rituale domanda, se preferisca ricevere il premio in pasta, marmellate, scatolame, ecc., oppure in giocattoli. “Una bambola!” grida Peppe ritraendosi come per un brivido. Ottenuta se la stringe al petto e scompare.
Ad animare il paese sono le botteghe, “l’habitat del lavoro dell’uomo”, le cui note distintive sono date dagli aiutanti e dagli apprendisti che condividono le ragioni artigiane. Sono il nucleo più eletto della vita associativa e c’è una simbiosi viva tra bottega e proprietario, tant’è che essa porta il suo nome.
Mito irradiante è dunque il paese. E non sfugge a Castelli la caratteristica degli abitanti: il soprannome quale “anagrafe emblematica”, quale “nomignolo” che è una specifica individuazione quale marchio di riconoscimento. Appartengono i soprannomi alla generazione da cui discendono gli abitanti: prova ne è che quando nasce un figlio si dice “È dâ razza di Cirasa”.
Nella ricca e dotta postfazione, Giuseppe Saja scrive che lo scrittore madonita è alla ricerca “dell’innocenza perduta”, un’innocenza pascoliana – egli precisa – per la “capacità di meraviglia” e per il bisogno di ritrovare i valori fondamentali quali la tradizione, la solidarietà, l’amicizia, la capacità personale di scrivere. Il cerchio non è chiuso, la narrazione non è finita perché apre, lasciando il compito di proseguire al lettore che non deve smarrirsi nel labirinto dell’onnivora società consumistica.
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